seconda e ultima parte
Torniamo alle emozioni, quale delle sue due professioni gliene ha regalate di più: indossatrice o cantante?
Quando sfilavo, stare sotto gli occhi degli altri non mi faceva né caldo né freddo. Quando esci in passerella, non hai nemmeno il tempo di pensare, fai sempre le stesse cose. Senza considerare che ogni volta, al cambio di abito, venivamo sforacchiate dagli spilli che venivano appuntati agli abiti affinché fossero perfetti su di noi, ed era tutto molto frenetico, quindi no, nessuna emozione. Era un lavoro, non avevi neanche il tempo di “ascoltare” le tue emozioni, il tuo stato d’animo. Quando canto, invece, mi sento a mio agio, sono sciolta, mi piace l’armonia: darla e riceverla. Anche se un pezzo è veloce. Io ho bisogno della melodia e dell’armonia. Pensi che sono stata la prima straniera che cantava al jazz club. Vedere il locale pieno di persone mi emozionava tantissimo, spesso alcune si mettevano sedute in terra perché i posti erano tutti occupati e ascoltavano con testa rivolta verso l’alto. Il calore che ricevo dal pubblico lo riverso nella voce, è un dare e avere. Quando canto incontro il loro sguardo, io guardo tutti, uno per uno.

La domanda a questo punto è d’obbligo: perché il jazz?
Perché era l’epoca del jazz, ebbi occasione di incontrare dei jazzisti e fra questi l’allora chitarrista di Fred Bongusto, Giancarlo Sicuteri, il quale mi propose di cantare con lui. Il jazz dà l’occasione di raccontare delle storie i cui testi sono belli, intensi e densi. Adesso, quando faccio le serate, ho con me due attrici che “raccontano” quelle storie in italiano, e gli ascoltatori rimangono stupiti: che bello! Non conoscevamo questo.
E questo avvicina molto le persone alla comprensione della musica…
Sì, indubbiamente.

Lei canta ancora, ha un suo gruppo?
Ho sempre avuto dei gruppi, ho lavorato con tantissimi musicisti. Attualmente ho un gruppo a Firenze, che si chiama Edith Alberts Quartet
Edith, ha fatto anche teatro?
Sì, per sei anni ho fatto dei musical, sempre con brani jazz, al Teatro Buonalaprima, che abbiamo qui, e che è una meraviglia.

Lei coltiva anche la passione della pittura, da quando?
Oggi dipingo per divertirmi, quando iniziai diciamo che fu più un’esigenza. Nel 2012 mio marito morì dopo due anni di sofferenza, in quei due anni l’unica persona che voleva vicino ero io, andavo a cantare solo quando era in ospedale, altrimenti il mio tempo era dedicato totalmente a lui. Con la sua morte il vuoto che avvertii fu enorme, per fortuna mia figlia Jenneke e i miei nipoti Alessandro e Tommaso sono meravigliosi e il loro amore è stato sicuramente una spinta per riaffacciarmi alla vita. Però 44 anni di vita insieme sono tanti, la nostra casa oltretutto era molto grande, decisi di venderla, ma quel vuoto non sapevo come colmarlo. Una mattina mi svegliai, ma non riuscii ad alzarmi dal letto, non potevo camminare. Lo psicologo con il quale parlai mi disse che avevo bisogno di dormire e mi dette una terapia… dormii tanto! Il periodo di convalescenza fu abbastanza lungo, e fu proprio in quel periodo, era il 2015, che sentii il desiderio di dipingere, di lavorare con i colori. Però non uso i pennelli, fatto salvo quando devo fare le rifiniture, altrimenti uso le dita, i polpastrelli.

Dal suo modo di porsi, di relazionare e di comunicare, posso intuire il motivo, ma le chiedo comunque: perché?
Perché il pennello sono io! Perché così mi sento libera!
Progetti futuri?
Ho in calendario alcuni spettacoli per l’inizio dell’anno, e poi, detto in tutta sincerità: non faccio più programmi, anche se la voglia di fare c’è sempre.
Desideri legati alla musica
Mi piacerebbe andare nelle scuole a raccontare la storia del jazz, una cosa analoga a quella che feci al Teatro Comunale di Firenze. Fare innamorare i ragazzi alla musica, farli affascinare!
