Quanti di noi si sono imbattuti in lettere, documenti o verbali nei quali, dopo le prime due righe, non abbiamo capito un tubo di quello che abbiamo letto? C’è sicuramente una differenza gigantesca tra l’italiano parlato, quello scritto e quello formale e per certi versi è giusto così perché, se scrivo ad un ente o ad un ufficio, non posso permettermi di dire le cose come se le stessi raccontando alla mia vicina di casa. Al netto della grammatica, che per qualcuno è riassumibile ancora in un grande punto interrogativo, in alcuni casi si deve usare una forma più corretta, mantenendo le giuste distanze come forma di rispetto verso l’interlocutore con quale ci si sta approcciando; si devono usare termini appropriati, evitare le ripetizioni, i termini ridondanti e via discorrendo. Venendo però da un passato nel settore pubblico, ricordo ancora come frasi semplici del tipo “Siamo andati in tal posto ed abbiamo trovato una determinata situazione” diventava nei verbali“ci siamo portati sul luogo denominato … ove abbiamo acclarato la presenza del sunnominato…”. Ma chi è che parla così? E’ fastidioso tanto leggerle, quanto sentirle dire queste parole. Cosa vuol dire ci siamo portati? Che io portavo lui e lui portava me? Potrei fare mille esempi di frasi del genere ed, al riguardo, mi torna ora in mente un mio superiore che, spero non si arrabbi se avrà modo di leggere ciò che sto per scrivere, esaminando i verbali o le relazioni che gli sottoponevamo, trovava sempre il modo di aggiungere un “de quo” da qualche parte. Noi lo sapevamo e usciti dall’ ufficio sghignazzavamo sempre, dicendo “Pure un po’ di qua!”.

Non me ne voglia, ma c’è sempre quell’insano rincorrere vocaboli o le forme più strane per dimostrare una certa superiorità intellettuale, che nessuno ci richiede mai. Sono sempre stato dell’idea che chi scrive deve farlo in modo che il lettore capisca cosa voglia dirgli, senza star troppo a rigirare le parole. Conservo un altro ricordo legato ad un caro collega, col quale condividevo la voglia ed il piacere di scrivere, insieme al quale ci divertivamo a scrivere i rapportini giornalieri, usando ogni volta frasi e parole diverse per descrivere sempre le stesse cose, che si ripetevano noiosamente uguali ogni giorno. Era una sfida lanciata nella condivisione del pensiero che sto cercando di enunciare, enucleare, esplicitare… no dai, solo spiegare. La nostra lingua ci offre un sacco di possibilità per descrivere un fatto o raccontare una storia senza per forza dover usare termini che arrivano della Luna e che non hanno un riferimento con la vita quotidiana di ogni giorno.
In realtà quello che vi sto descrivendo adesso è un pensiero che già uno scrittore decisamente migliore di me ebbe a dire in passato e che condivido totalmente. Non so bene quando Italo Calvino lo scrisse, a me è capitato sotto il naso non più di qualche giorno fa, per cui ve lo ripropongo sperando di essere stato altrettanto chiaro di quanto lo fu lui.

“Il brigadiere è davanti alla macchina da scrivere. L’interrogato, seduto davanti a lui, risponde alle domande un po’ balbettando, ma attento a dire tutto quel che ha da dire nel modo più preciso e senza una parola di troppo:‘Stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa e ho trovato tutti quei fiaschi di vino dietro la cassa del carbone. Ne ho preso uno per bermelo a cena. Non ne sapevo niente che la bottiglieria di sopra era stata scassinata’. Impassibile, il brigadiere batte veloce sui tasti la sua fedele trascrizione: “Il sottoscritto essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire l’avviamento dell’impianto termico, dichiara d’essere casualmente incorso nel rinvenimento di un quantitativo di prodotti vinicoli, situati in posizione retrostante al recipiente adibito al contenimento del combustibile, e di aver effettuato l’asportazione di uno dei detti articoli nell’intento di consumarlo durante il pasto pomeridiano, non essendo a conoscenza dell’avvenuta effrazione dell’esercizio soprastante”. Ogni giorno, soprattutto da cent’anni a questa parte, per un processo ormai automatico, centinaia di migliaia di nostri concittadini traducono mentalmente con la velocità di macchine elettroniche la lingua italiana in un’antilingua inesistente. Avvocati e funzionari, gabinetti ministeriali e consigli d’amministrazione, redazioni di giornali e di telegiornali scrivono parlano pensano nell’antilingua. Caratteristica principale dell’antilingua è quello che definirei il “terrore semantico”, cioè la fuga di fronte a ogni vocabolo che abbia di per se stesso un significato…Nell’antilingua i significati sono costantemente allontanati, relegati in fondo a una prospettiva di vocaboli che di per se stessi non vogliono dire niente o vogliono dire qualcosa di vago e sfuggente…Chi parla l’antilingua ha sempre paura di mostrare familiarità e interesse per le cose di cui parla, crede di dover sottintendere: “io parlo di queste cose per caso, ma la mia funzione è ben più in alto delle cose che dico e che faccio, la mia funzione è più in alto di tutto, anche di me stesso”. La motivazione psicologica dell’antilingua è la mancanza d’un vero rapporto con la vita, ossia in fondo l’odio per se stessi. La lingua invece vive solo d’un rapporto con la vita che diventa comunicazione, d’una pienezza esistenziale che diventa espressione. Perciò dove trionfa l’antilingua – l’italiano di chi non sa dire “ho fatto” ma deve dire “ho effettuato” – la lingua viene uccisa.”
Aggiungo un ultimo ricordo personale: quando non sapevo come fare un determinato atto, gli “anziani” mi dicevano sempre che bastava copiare un precedente cambiando i dati e tutto sarebbe andato bene. All’inizio seguii la regola, ma leggendo e ricopiando quelle parole tanto strane e astruse, mi sentivo davvero a disagio per cui, una volta diventato padrone della materia, iniziai a riscrivere il tutto con parole più semplici, di uso comune, di facile comprensione. Inizialmente qualcuno protestò, perché la forma non era la solita ma di fronte alla mia ostinazione mi lasciarono fare, perchè secondo loro, alla fine, il responsabile di ciò che scrivevo ero io. E la soddisfazione era grande quando, quasi di nascosto, qualche collega mi avvicinava e, lontano da orecchie indiscrete mi diceva che leggere i miei rapporti era un piacere.
Qual è dunque il segreto per abbattere questa barriera letteraria? Far uso di locuzioni all’uopo previste onde evitare che i medesimi fruitori, non abbiano ad intendere suoni modulati con la parte esterna dell’apparato boccale con contenitori in vetro generalmente avvolti in erba secca ed intrecciata, usi ad esser riempiti di prodotti vinicoli.
De quo! Mi sembra ovvio no?