terza puntata
Alla fine dei sei mesi di detenzione nei campi di lavoro, la famiglia si riunisce e si trasferisce nella casa della nonna materna. La situazione, se mai fosse possibile, è ancora peggiore di prima. Non solo non ci sono più soldi, ma scoprono di essere stranieri a casa loro. La voce del loro tentativo di fuga si è sparsa e, dopo la cattura e la detenzione, nessuno vuol avere niente a che fare loro: sono solo dei disertori che hanno disonorato il paese. Il padre si ammala, e poco dopo morirà, mentre la madre è distrutta dai sensi di colpa. Che colpa si può dare a Hyeok, se quel giorno, sentendo quella voce al telefono, non è riuscito a dire una parola? Probabilmente tutti noi avremmo reagito allo stesso modo. Così come ci avrebbe investito lo stesso identico tsunami di dubbi, se qualcuno a cui teniamo ci avesse fatto quella proposta. È più facile prendere una decisione, quando non ci sono alternative, e da perdere non si ha più niente.
Niente. O meglio, poco e niente. È quanto si sa della Corea del Nord. Tutto ciò che trapela è filtrato dalla propaganda. Persino la veridicità degli indicatori statistici ed economici è dubbia. Un blogger di viaggi è stato recentemente a Pyongyang, accompagnato da due guide che lo hanno portato nei luoghi dove gli era stato concesso di filmare. Emergono usi e costumi che fanno un po’ sorridere, e qualche stortura che ci fa capire quanto diverso ed alieno sia questo paese. Dal 1948, la Corea del Nord vive in un isolamento quasi totale, sotto un rigidissimo regime socialista, sostenuto dall’Unione Sovietica ieri, e dall’asse russo-cinese oggi. Con la pandemia le cose sono peggiorate, e la Corea del Nord è diventato un paese sigillato.
Il professor Kang Dong-wan, che insegna Scienze Politiche all’università di Busan, seconda città della Corea del Sud, ha trovato un modo originale per carpire informazioni sul paese gemello. Periodicamente si reca sulle spiagge settentrionali della Corea del Sud, vicino al confine, e raccoglie i rifiuti provenienti da nord, portati dalla corrente. Il posto migliore dove andare a pesca della spazzatura nordcoreana è la punta settentrionale dell’isola di Yeonpyeong. Da lì, la Corea del Nord dista solo una manciata di miglia marittime, e quando non c’è foschia, la costa si vede ad occhio nudo. Sebbene sciupati e corrosi dal mare, i rifiuti che il professore raccoglie sono una sorta di documentario di quello che succede dall’altra parte. L’attenta analisi delle confezioni gli consente di delineare un quadro piuttosto dettagliato della situazione socio economica che sta vivendo il Nord. Gli ingredienti elencati suggeriscono la mancanza o meno di alcune materie prime. Le variazioni dei prezzi indicano lo stato dell’inflazione. I disegni e i nomi dei prodotti – che scimmiottano nomi e personaggi dell’occidente, soprattutto in quelli per bambini – dimostrano che i gusti e le tendenze dei consumatori stanno cambiando, e che alcune barriere culturali, come il rifiuto di translitterare le parole inglesi, stanno cadendo, se pur molto lentamente. Il suo studio è una sorta di museo di antropologia culturale nord coreana, fatto con centinaia e centinaia di rifiuti, ordinatamente conservati e catalogati. Il professore fornisce certamente un validissimo contributo alla conoscenza della Corea del Nord, ma le sue conclusioni, per quanto acute, sono forzatamente inferenziali. Non si basano, cioè, su un’esperienza diretta.
I racconti di chi riesce a fuggire, invece, sono reali. Ogni voce è importante, ogni storia offre delle risposte. Ogni “disertore” che arriva dall’altra parte, fornisce un pezzo del puzzle, un frammento prezioso di quel mondo così vicino, eppure così straniero.
Lo straniero. Alcuni lo chiamavano così, quel ragazzone venuto dalla capitale. In realtà Hyeok era tornato semplicemente nel posto dov’era nato e cresciuto: Chongjin, la città più sviluppata dell’Hamgyong. Dotato di una superiore predisposizione per la matematica e le scienze, a soli 20 anni, entra nella squadra nazionale di matematica e partecipa ad una gara fuori dal paese, a Pechino. Un fatto piuttosto raro, questo, visto che allontanarsi dalla Corea del Nord è un privilegio che spetta ai funzionari di partito o ai faccendieri del regime, sempre in cerca di accordi commerciali per rintuzzare, in qualche modo, l’asfittica economia del paese. Successivamente, il talento di Hyeok viene premiato con l’ammissione alla prestigiosa Università delle Scienze di Pyongyang, dove si laurea in Scienze dei Dati. Il percorso di tutti quelli che eccellono in qualche campo di studi finisce quasi sempre allo stesso modo: entrare nell’apparato che guida il paese. Nel caso di Hyeok si tratta del Partito dei Lavoratori, il braccio politico del regime di Kim, e unica formazione politica ammessa nel paese. Ma la burocrazia non fa per Hyeok. Nel 2010, quindi, decide di tornare nella sua città, per avviare una piccola attività di assistenza tecnica alle aziende del posto. Ha 25 anni e la scelta si rivela vincente. I suoi servizi sono molto richiesti, e l’attività si rivela fin da subito piuttosto redditizia.
Poche persone al mondo sanno quello di cui Hyeok si è occupato per il partito. Alcune di queste persone le conoscerà a seguito di un’altra scelta – la più importante – che farà di lì a qualche anno. Ma a questo punto della storia, proprio mentre una giovane ragazza e la sua famiglia si preparano alla fuga, Hyeok – non ancora trentenne – ha tutto quello che la stragrande maggioranza dei nordcoreani non riesce ad ottenere nell’arco di una vita intera. Per quanto circoscritto e privo di tutta una serie di possibilità, Hyeok aveva trovato il suo piccolo, grande posto nel mondo.
Il mondo di Joo stava, lentamente ,riacquistando una parvenza di normalità, sebbene la lista dei “nonostante” fosse davvero lunga e densa di punti dolorosi. La morte del padre era stata uno colpo durissimo e rappresentava una ferita ancora aperta, soprattutto per la madre, tormentata da un senso di colpa quasi universale, come se il peso di tutto il mondo le stesse addosso, a curvare le sue piccole spalle, fino a spezzarle. Lei era tornata nella sua città di origine, al nord, quasi al confine con la Cina. Ogni volta che si telefonavano, il bel viso di Joo si adombrava. Poteva quasi vederla, sua madre, mentre parlavano: tono e postura dimessi, sguardo nel vuoto, poca cura di sé, poche cose da dire e sempre le stesse. “Ciao mamma…ti senti meglio oggi?”.Sua madre neanche rispondeva più a questa domanda, ma Joo gliela faceva comunque, tutte le volte, e lei svicolava sempre con altre domande del tipo: “E il tuo nuovo lavoro?”, oppure “E tua sorella?”. Nuovo lavoro…Erano mesi e mesi che Joo si era trasferita a Chongin, dove aveva trovato un buon impiego in uno studio fotografico. Ma sua madre ne parlava come se fosse qualcosa di estraneo e, in fondo, di scarsa rilevanza, tanto da chiamarlo così, sebbene non fosse affatto nuovo e sapesse perfettamente di cosa si trattava. Anche quando chiedeva della sorella, sembrava che sua madre non la sentisse da mesi, o che non sapesse niente della sua vita. In realtà anche lei telefonava quasi tutti i giorni alla madre, raccontandole di quello che faceva alla fattoria dove aveva trovato lavoro. “Tutto bene mamma” rispondeva rassegnata. A volte aggiungeva qualche dettaglio, per cercare di sollevare il suo interesse, sebbene fosse certa che il suo fosse un riguardo filiale del tutto inutile.
Lei si sentiva in colpa per la rovina economica della famiglia, per l’insuccesso della fuga e le sue conseguenze, per la morte del marito; ma anche perché ad entrambe le sue figlie – brillanti e promettenti – era stato negato un futuro migliore, e per il fatto che loro tre vivessero così lontane l’una dall’altra. A volte sembrava che si sentisse in colpa persino per essere nata dalla parte sbagliata del 38° parallelo. Prima, essere nordcoreani era un peso; adesso era diventata una sorta di vergogna, un’onta da cancellare, un’ingiustizia da vendicare, una colpa da redimere. E secondo lei c’era un solo modo per riuscirci: fuggire. Di nuovo. Niente sembrava avere più importanza. Ma al telefono non se ne poteva parlare.
continua…