Questo docuracconto è basato su una storia vera. Alcuen ricostruzioni e alcuni personaggi sono opere di fantasia.
seconda puntata
I nemici, per chi tenta la fuga attraverso la Cina, sono ovunque. Il confine con il gigante asiatico è lungo circa 1400 chilometri, ed è ben pattugliato. Le guardie di frontiera conoscono i sentieri percorsi da chi fugge a piedi, e li presidiano con regolarità. Tutto il resto è territorio aspro e selvaggio. Avventurarsi in queste zone è molto difficile e pericolosissimo, e quindi esse sono meno battute di altre. Per circa metà della sua lunghezza, il confine coincide con il fiume Yalu. D’inverno le sue acque si ghiacciano ed è possibile raggiungere l’altra sponda con una certa facilità. Ma quando le temperature scendono sotto lo zero, raggiungere la riva coreana del fiume senza dotazioni invernali, e senza punti sicuri di sosta lungo il cammino, è un suicidio. Chi riesce ad arrivare in Tailandia, ci riesce solo grazie ad una rete di sostegno ramificata e segreta, fatta di persone che vendono informazioni, cellulari usa e getta, servizi di trasferimento di denaro; ma ci sono anche ong straniere che finanziano case sicure e punti di smistamento lungo le varie direttrici di fuga, un po’ ovunque nel sud est asiatico. La fuga in solitario, contando solo sulle proprie forze, nove volte su dieci, porta alla cattura o alla morte.
La morte della speranza si chiama disperazione. E se è vero che la speranza è la vera essenza della nostra specie, sarà la nostra capacità di debellare la disperazione che affligge vaste porzioni dell’umanità, l’arma che ci salverà dall’autodistruzione, sempre che non lo facciano prima il cambiamento climatico o una nuova pandemia. Tragiche storie di disperazione fanno da sottofondo al nostro vivere quotidiano. Ammassati lungo i bastioni di remote frontiere, moltitudini di creature sradicate vagano perpetue in cerca di un varco, tenendo in braccio quel poco che è rimasto delle loro miserevoli vite. È proprio la disperazione che, in una giornata di fine estate del 2012, spinge Joo e la sua famiglia a raggiungere il fiume Yalu. Fino a lì, a dire il vero, non è stato molto difficile. Il fiume, però, è in piena. Le sua acque sono torbide e corrono veloci, con pericolosi mulinelli che si formano all’improvviso e, altrettanto velocemente, scompaiono. Lo risalgono per qualche chilometro, alla ricerca di un punto che sembri adatto, poi si legano gli uni agli altri, stringendosi una corda intorno alla vita per non scivolare, e riescono a guadarlo.
Sono in Cina.
Adesso li aspetta la parte più lunga e difficile del viaggio. L’idea è di raggiungere dei parenti, approfittare della loro ospitalità per qualche tempo, e poi proseguire verso sud. Ma non avendo potuto pagare nessuno che potesse offrire loro un po’ d’aiuto in territorio cinese, devono fare tutto da soli, e tenersi il più lontano possibile dai sentieri o dalle strade. Attraversano paludi, risalgono e scendono pendii scoscesi, i loro corpi senza protezione sono martoriati dalle ferite e dalle punture di zanzare grandi come droni da combattimento. La fame e la sete sono implacabili. Le poche persone che incontrano, si dimostrano del tutto indifferenti e si rifiutano di aiutarli. Ci mettono due settimane a superare questo inferno e raggiungere il villaggio dove vivono i parenti. Ma non vi troveranno né conforto, né rifugio.
Negare il rifugio a chi non è trattato con umanità e giustizia nel paese dal quale sta scappando, è un atto che viola almeno due trattati delle Nazioni Unite, di cui la Cina è firmataria: la convenzione sui rifugiati del 1951, e quella sulla tortura del 1984. Dal 1986, nel disinteresse generale, è in vigore un accordo transfrontaliero, tra la Corea del Nord e quest’ultima, che li viola apertamente. In base a questo protocollo, i fuggitivi nord coreani – “disertori” per il regime – che vengono intercettati sul suolo cinese, sono arrestati e rimpatriati. Le autorità cinesi, sebbene a conoscenza delle ritorsioni di cui saranno vittime i fuggitivi riconsegnati, non rispettano questi due importanti trattati, e si rendono colpevoli degli stessi crimini contro l’umanità di cui è accusato il regime di Pyongyang. Quello che aspetta i disertori, infatti, sono carcere, lavori forzati, torture, interrogatori e persino il plotone d’esecuzione, in caso la macchina propagandistica avesse bisogno di affilare un poco le armi.
Ad armi spianate. È così che la polizia cinese si presenta a casa dei loro parenti, e trae tutta la famiglia di Joo in arresto. Per qualche inspiegabile impeto patriottico, qualche vicino, notando quegli stranieri, ha fatto la spia. Joo è sicura che, una volta rimpatriati, verranno tutti condannati a morte e fucilati. Le cose non andranno così, per fortuna. La famiglia viene trattenuta per qualche settimana in Cina, il tempo per espletare le pratiche di rimpatrio, e poi rispedita in Corea del Nord. I genitori sono condannati a sei mesi in un campo di lavoro, Joo e la sorella minore, invece, trascorrono il tempo che li separa dal ricongiungimento famigliare, in una struttura vicina al confine. Le due sorelle subiscono umilianti perquisizioni giornaliere, che sono al limite della sevizie sessuale. Gli interrogatori sono estenuanti, nella certezza che prima o poi emerga una discordanza, un particolare sfuggito il giorno prima. Si stenta a credere che la famiglia non abbia ricevuto nessun aiuto esterno, che abbiano passato il confine e che siano arrivate al villaggio cinese, contando solo sulle loro forze. Il guado del fiume in piena è ritenuto il più inverosimile dei fatti. Viene chiesto loro, addirittura, il tipo di corda usato, il suo spessore, il numero e il tipo di nodi utilizzati. I poliziotti sono come lupi affamati, ma non ci sono nomi o indizi di collaboratori da dare in pasto ai loro denti aguzzi. Sempre le solite domande, per ore ed ore. E sempre le solite risposte. Vengono chiesti e richiesi tutti i dettagli della loro fuga, ma non ci sono discrepanze nei racconti delle due sorelle. Perché la verità è che erano solo un famiglia disperata, in fuga verso un futuro meno cupo di quello che li avrebbe trascinati a fondo, se fossero rimasti nel loro paese.