Gennaio 1965, per la prima volta, dopo oltre un anno dall’inizio del corso preassunzionale, fummo chiamati a Torino per uno stage della durata di un mese allo scopo di cominciare a conoscere l’azienda presso la quale saremmo, poi, stati assunti. Eravamo in tre: io ed i colleghi di corso Luciano, nativo di Merano ex allievo dell’Accademia di Modena che mal sopportava la disciplina militare, e Alessandro da Recco, soprannominato affettuosamente “Transistor”, in quanto già appassionato di semiconduttori quando ancora si parlava di valvole termoioniche. Per inciso: Federico Faggin, un perito ex dipendente dell’Olivetti e genio tutto italiano, avrebbe brevettato il primo microprocessore soltanto nel 1971. Bene, arriviamo nella città della Mole e, come prima cosa, prendiamo alloggio nella cameretta a tre letti in una pensioncina in via Giulia di Barolo adiacente alla stupenda Piazza Vittorio Veneto. Il mattino successivo ci presentiamo in azienda e, dopo i convenevoli del caso, veniamo spediti al campo di addestramento dove ci riceve un uomo massiccio, con un volto simpatico ornato da due baffetti sottili alla Clark Gable, un guardiafili di vecchio stampo, che, guardando con aria ironica questi tre “fighetti” in giacca e cravatta, esordisce così col suo accento marcatamente piemontese: “Sono Giuanin ad’la STIPEL (Società Telefonica Interregionale Piemonte e Lombardia che però ormai era SIP) il vostro istruttore, voi dovrete conoscere tutte gli aspetti del lavoro che sarete chiamati a coordinare; in genere si parte da zero ma voi partirete da meno un metro e venti che è la profondità della buca che dovrete scavare per piantare un palo; nello spogliatoio troverete guanti, una tuta da lavoro, pala e piccone”.
Più facile a dirsi che a farsi: vista la nostra scarsa esperienza con questi attrezzi ed il terreno gelato sembrava che il piccone, per quanto forte si picchiasse, rimbalzasse anziché piantarsi. Lavoravamo comunque di buona lena, anche per spegnere quel sorriso beffardo sotto i baffetti che diceva “non ce la farete mai” e, nonostante il freddo, ben presto eravamo sotto un bagno di sudore. Alla fine avemmo ragione del terreno gelato, il cosiddetto cappellaccio, e riuscimmo a fare una buca regolamentare profonda appunto un metro e venti.
A questo punto Giuanin, bastardo dentro, ci confessò che ci aveva fatto lavorare sul terreno gelato per saggiare la nostra grinta e che la buca per piantare il palo era già pronta da tempo. E siccome si dichiarava soddisfatto del risultato raggiunto ci portò in una “piola”, così in Piemonte si chiama l’osteria, lì di fronte dove facemmo conoscenza con la prima “buta stupa”(bottiglia tappata cioè non vino sfuso) di barbera accompagnata da pane e salame che egli volle offrirci. L’addestramento proseguì poi nel pomeriggio con cintura di sicurezza e ramponi per la prima salita sui pali e quindi nei giorni successivi con giunzione di cavi e vari sopralluoghi nelle centrali e nelle sale trasmissione.
Il tempo passava lento e tutte le sere ci ritrovavamo stanchi a cena nella nostra pensioncina a guardare un po’ di televisione prima di coricarci. Ricordo ancora Vittorio Gassman che recitava “I dolori del giovane Werther” nella parodia del poeta Ernesto Ragazzoni ed il Festival di Sanremo vinto quell’anno da Bobby Solo che trionfò con la canzone “Se piangi se ridi”, ma la canzone che più bella per me fu “Le colline sono in fiore” cantata da Vilma Goich, che mi faceva tanto pensare a colei che sarebbe diventata, da lì ad un anno, la mia adorata compagna d vita. Il televisore funzionava a monete, cioè ogni ora bisognava introdurre in una apposita scatola un pezzo da cento lire, dopodiché se non si introducevano altre monete, si spegneva automaticamente.
Quindi di volta in volta introducevamo il nostro obolo ad eccezione di uno che, da buon ligure, quando arrivava il suo turno stranamente veniva colto da un’improvvisa crisi di sonno e se ne andava a dormire. Dovevamo porre rimedio a questa situazione ed una sera Luciano ebbe un’idea brillante che mi descrisse nei minimi particolari trovandomi perfettamente d’accordo. Come al solito, dopo un paio d’ore di televisione, il nostro amico, al momento di contribuire, fu colto dalla solita crisi di sonno e se ne andò a letto. Aspettammo una buon’ora che si fosse profondamente addormentato e, verso mezzanotte, andammo anche noi in camera e, mentre lui dormiva il sonno dei giusti, spostammo le lancette del suo orologio e quelle della sveglia alle sei e mezzo del mattino facendo in modo che suonasse dopo dieci minuti; quindi ci mettemmo il pigiama e ci infilammo sotto le coperte aspettando; la sveglia, puntuale, fece il suo dovere e la nostra vittima si svegliò con l’impressione che la notte fosse passata in un lampo. Poiché quella mattina, guarda caso, toccava a lui andare a lavarsi per primo, si alzò e dopo aver controllato l’orologio ed il tempo alla finestra, essendo in gennaio fortunatamente era ancora buio pesto, si recò in bagno ritornando dopo poco lamentandosi del fatto che, dopo tanti anni, non aveva avuto il “beneficio quotidiano”. A questo punto avremmo voluto rivelargli lo scherzo, ma lui non ce ne dette il tempo e partì verso la sala da pranzo per fare la colazione con la dovuta calma.Ovviamente la sala era buia e deve aver fatto un bel po’ di confusione al punto che la proprietaria della pensione, svegliata dal trambusto, si precipitò in vestaglia e bigodini a vedere che cosa stesse succedendo.
Alla domanda del nostro compagno “Non è ancora pronta la colazione?” la signora rispose fra l’ironico e piccato: “Qui la colazione si serve alle sette e non a mezzanotte e mezzo quando la gente dorme!”. Tornò in camera e, vedendoci sotto le coperte, non ci dette alcuna considerazione: ci guardò solo severamente e si coricò a sua volta non prima di averci così apostrofato “Voi due non siete bastardi normali ma bastardi dentro”. Il mattino dopo confessò che ci avrebbe volentieri torturati, ma la scena con la padrona della pensione era stata troppo buffa e lo aveva ripagato dello scherzo subito. Finì insomma con una risata generale; però da quella volta egli si guardò bene di andare a letto prima di noi.
I dolori del giovane Werther (di Ernesto Ragazzoni)
Il giovane Werther amava Carlotta
e già della cosa fu grande sussurro.
Sapete in che modo si prese la cotta?
La vide una volta spartir pane e burro
Ma aveva marito Carlotta, ed in fondo
un uomo era Werther dabbene e
corretto;
e mai non avrebbe (per quanto c’è
al mondo)
voluto a Carlotta mancar di rispetto.
Così, maledisse la porca sua stella,
strillò che bersaglio di guai era, e
centro
e un giorno si fece saltar le cervella
con tutte le storie che c’erano dentro.
Lo vide Carlotta che caldo era ancora
Si terse una stilla dal bel occhio
azzurro;
e poi, volta a casa (da brava signora)
riprese a spalmare sul pane il suo burro.