Per il pranzo domenicale di domani sto preparando il ragù, una salsa che abbisogna di tre cose: ingredienti di prim’ordine, amore e tempo. Ne esistono varie versioni, le più note delle quali sono quella alla bolognese e quella napoletana. A quest’ultima addirittura il grande Eduardo De Filippo ha voluto dedicare la poesia “O rraù”, ma ogni regione, direi meglio ogni famiglia, ha la sua ricetta personale che, comunque, non può prescindere dalle tre cose di cui sopra. Mentre mi dò da fare con gli ingredienti ricevo una telefonata da Torino. Sono gli amici con i quali, mia moglie ed io, giovani sposi da poco stabiliti in quella città per motivi di lavoro, 41 anni in due, iniziammo un rapporto fraterno che dura ormai da quasi sessant’anni. La chiacchierata finisce, torno al mio ragù e mentre aspetto che inizi a sobbollire o, meglio ancora a “pippiare” come s’usa dire a Napoli, la mente va e comincia a navigare nei ricordi.
Ricordo ora, vivida nella memoria, la sera del 15 ottobre del lontano 1963 quando, da pochi giorni diciannovenne, partii per Torino dopo aver superato i test attitudinali a Genova, per sostenere il colloquio finale con l’azienda. Se avessi superato l’esame l’azienda avrebbe finanziato una borsa di studio per un corso biennale, al temine del quale sarei stato poi assunto a tempo indeterminato. Erano da poco passate le nove di sera quando scesi dal treno e mi ritrovai spaesato sul marciapiede in mezzo alla nebbia, al freddo e ad un’aria che sapeva di tutto tranne che di aria: ero arrivato alla stazione di Porta Nuova che ribattezzai immediatamente come Polo Nord.“E io – pensai – dovrò passare il resto della mia vita qui, quando a casa ho lasciato una fantastica ottobrata che ancora invitava a fare bagni di mare?”. Ero, a dir poco, sconcertato con una dannata voglia di tornarmene indietro, quando non potei fare a meno di notare un signore anziano che, sceso dal treno, aspirò profondamente quell’aria che non sapeva di aria e con un gesto che sembrava quasi volesse abbracciare l’intera città esclamò “Ah mia bela Turin”. Quel gesto mi rinfrancò e mi dette coraggio; in fin dei conti, mi dissi, se lui ama tanto questa sua città perché non dovrei riuscirci anch’io? E così, dopo due anni, diventai “torinese”.
Bella città Torino e soprattutto bella gente: seria, laboriosa, determinata e gentile che in quegli anni stava, tuttavia, subendo una trasformazione epocale. Arrivavano ogni giorno dal sud con il “Treno del Sole” oltre cinquecento immigrati, richiamati dal miraggio di un lavoro sicuro che avrebbe migliorato la loro vita. Tutto questo comportava una serie di enormi problemi logistici che, ben presto, sconvolsero l’equilibrio dell’intera città. La carenza di alloggi portò alla speculazione e si cominciò ad affittare soffitte e scantinati, nei quali si ammassavano intere famiglie numerose, in attesa di una miglior sistemazione, mentre nelle portinerie dei palazzi non era raro leggere i cartelli “Affittasi appartamento, No Meridionali”.
Il tempo ha poi ristabilito gli equilibri. Sorsero dal nulla grandi quartieri quali Le Vallette e Mirafiori Sud e nel giro di pochi anni avvenne la tanto sperata integrazione. Inutile dire che anch’io ben presto mi integrai grazie allo squisito senso ospitalità tipica dei piemontesi, con i quali nacquero durature e sincere amicizie venendo a conoscenza e rispettando le loro abitudini. Ogni famiglia, ad esempio, ha, oltre all’appartamento, una “Crota”, cioè una cantina nella quale il capofamiglia selezione ed imbottiglia i meravigliosi vini che questa regione produce. Quando si va a far visita a qualcuno, regolarmente, si è accompagnati in “Crota” a scegliere i migliori vini da consumare poi nella riunione conviviale.
Eppure questa gente è spesso etichettata dal resto degli italiani con due detti popolari che non hanno assolutamente risconto con la realtà e per i quali sarà bene fare chiarezza. Il primo è “Torinesi falsi e cortesi”. Fino 1563 la capitale del regno di Savoia era situata a Chambery, ed aveva il suo stuolo di cortesi, cioè menestrelli di corte che allietavano con i loro canti le serate dei nobili. Giusto in quell’anno la capitale fu spostata a Torino e, lì, la corte dovette accontentarsi dei canti dei menestrelli locali evidentemente meno bravi dei colleghi d’oltralpe tanto da venir definiti Falsi- Cortesi. Va a sapere poi chi ha messo fra le due parole la congiunzione e. Una cosa comunque è certa: i torinesi sono tutto tranne che falsi, ma certamente sono cortesi e forse è proprio dietro questa, insolita per noi, cortesia che i malfidati paventano la fregatura.
Il secondo detto è: “Bogia nen” (attenzione nella lingua piemontese la o si legge u mentre la ò si legge appunto o) che indica coloro che non si muovono, ma i piemontesi non certo indolenti come si vuol far credere oggi. Qui bisogna risalire alla battaglia della cresta dell’Assietta avvenuta il 19 luglio del 1747 fra l’esercito francese di Lugi XV e quello sabaudo di Carlo Emanuele III che, alleatosi con l’Austria in guerra contro la Francia, mirava ad ampliare i propri confini. All’Assietta i piemontesi agli ordini del tenente colonnello Carlo Novarina conte di San Sebastiano, pur se ben fortificati, dovettero resistere per ore ai furiosi assalti francesi, numericamente quattro volte superiori, e, quando il comandante in capo dell’esercito sabaudo, generale Giovanni Battista Cacherano di Bricherasio, temendo lo sfondamento delle soverchianti forze nemiche, dette l’ordine di abbandonare le posizioni si racconta che il Novarina, disubbidendo all’ordine, si sia rivolto ai suoi uomini con la frase divenuta celebre “nojautri bogioma nen da si” cioè noi non ci muoviamo da qui. I francesi furono definitivamente respinti ed i valorosi soldati piemontesi meritarono da allora l’appellativo di “bogia nen” tutt’altro che dispregiativo, al punto che il Re di Prussia, venuto a conoscenza dell’episodio, ebbe ad esclamare “Se noi disponessimo di uomini di tale valore conquisteremmo l’Europa”.
Vengo riportato alla realtà dal profumo del ragù, che sta pippiando dolcemente e continuerà a farlo ancora a lungo, lasciandomi il tempo di decidere se usarlo come condimento per le tagliatelle bolognesi o i maccheroni napoletani; alla fine decido: tiro la pasta e per domani saranno lasagne nostrane
O rraù
‘O rrau ca me piace a me
m’’o ffacieva sulo mammà.
A che m’aggio spusato a te,
ne parlammo pè ne parlà.
Io nun sogno difficultuso
Ma levamell’ ’a miezo st’uso
Si, va buono; cumme vuoi tu.
Mò ce avessimo appicceca?
Tu che dice? Chest’è rrau?
E io m’a ‘o mmagno pè m’ ’o mangià…
M’ ‘a faje dicere na parola?
Chesta è a carne c’ a pummarola.
(Eduardo De Filippo)