Mi avevi detto che volevi accompagnarmi a scegliere le scarpe per il giorno della mia laurea. Sapevo che era una scusa per controllarmi, per stare ancora un po’ di tempo con me, per provare, ancora, a convincermi a tornare insieme. Sapevo che mentivi quando giuravi di essere cambiato, quando dicevi che avresti smesso di soffocarmi con la tua gelosia. Sapevo che il tuo amore per me era distorto, tossico e che non andava bene. Per questo, infatti, avevo deciso di lasciarti tre mesi fa. Ma tu continuavi a cercarmi per dirmi che la tua vita senza me era finita e io…mi sentivo in colpa per quel dolore che dicevi di provare. Credevo alla tua disperazione, temevo che potesse distruggerti. Eri stato morboso e ossessivo nel tempo in cui eravamo stati insieme, ma io ero certa di conoscerti: sapevo che eri un bravo ragazzo. Sapevo che non avresti mai fatto del male a me. Temevo più per te. Avevo paura che non saresti riuscito a superare il dolore della nostra separazione. Per questo ho accettato di vederti tutte le volte che me lo hai chiesto. Anche l’ultima sera. Non avevo alcuna voglia di dividere con te i preparativi della mia festa di laurea. Era il mio traguardo, il mio trampolino per cominciare la mia nuova strada. Era la libertà, anche da te, che non avresti mai accettato che io andassi via. Ma tu mi hai chiamato, disperato come sempre, e mi hai chiesto di venire al centro commerciale con me. E no, non mi andava proprio di vederti, ma ti ho detto di sì lo stesso, perché, forse, sarebbe stata l’ultima volta prima della mia partenza. Ormai era tutto pronto, mancava una settimana alla discussione della tesi, alla festa, alla mia nuova vita di cui tu non avresti fatto parte. Non volevo essere crudele, non volevo negarti un’ultima serata con me. Così ti ho detto sì, per l’ultima volta.
Non mi parevi diverso, quel pomeriggio, nulla più del solito comportamento afflitto che avevi da quando ci eravamo lasciati. Se ti avessi visto schizzato o su di giri, forse, sarei stata più in guardia. O forse no, perché, per tutta la tua vita, ti eri sempre comportato bene ed è difficile immaginare che qualcuno che non ha mai fatto colpi di testa possa, all’improvviso, trasformarsi in un mostro. No, non c’erano segni di quel che ti balenava nella mente. Almeno io non li ho visti, fino a quando non mi hai riportata a casa e hai voluto fermarti ancora un po’ a parlare nel parcheggio. Ero stanca. Ero fuori dalle 18 ed erano le 23 passate. Ero stanca anche di stare ad ascoltarti. Quando hai ricominciato con le solite richieste: torniamo insieme, rimanda la laurea, non andare a studiare in un’altra città, non lasciarmi da solo, non lasciarmi e basta…ho pensato solo che non ne potevo più e sono scesa dalla tua macchina per andare a casa mia, che era lì a due passi. Due passi: il mio futuro, la mia vita, la mia salvezza. Non me li hai fatti fare. Mi sei corso dietro come una furia e sei riuscito ad agguantarmi. Solo allora ho visto chi eri. Solo allora ho capito che non mi avevi mai amata, che io ero solo una cosa di tua proprietà e che, piuttosto che perderla, l’avresti distrutta. Nella mia brevissima, inutile fuga mi sono esplose domande nella testa: sta davvero succedendo a me? Sono io l’ennesima, la prossima, vittima di un odio malato che si maschera da amore?
Mi hai strattonato e io ho gridato con tutte le mie forze. Per un attimo ho sperato, ho pregato, ho creduto che, lì, a due passi da casa mia, qualcuno mi avrebbe sentito. Qualcuno sarebbe intervenuto a fermare la tua follia. Invece non è arrivato nessuno. Solo un dolore secco al collo, e poi sulla faccia. Il caldo bruciante del sangue che esce dalle ferite che mi hai inflitto con un coltello. Avevi un coltello. Perché? Perché hai passato la serata con me tenendo un coltello in tasca?
Perché mi stai facendo questo? La paura è più grande del dolore e ancora, fino all’ultimo, spero di riuscire a salvarmi. Grido di nuovo, ma mi chiudi la bocca con il nastro adesivo, mi blocchi anche le braccia e mi riporti nella tua auto: la mia bara. Parti come un pazzo, ma sai bene dove andare: in un luogo in cui nessuno possa sentire le mie grida, nessuno possa venire in mio aiuto. Penso solo: non voglio morire, non ora, non così. E lotto contro il nastro adesivo e contro te e il tuo coltello. Ti fermi nel parcheggio di un capannone sperduto nei campi, proprio quando riesco a liberarmi. Corro fuori dall’auto. Avrei corso all’infinito nella speranza di vedere una macchina, un passante, chiunque potesse salvarmi da te. Non c’è nessuno e io sono ferita, sanguinante, terrorizzata e sconvolta. Ci metti due secondi a raggiungermi. Arrivano prima i fendenti del coltello, di te. Non ho scampo. Sta succedendo a me. Sono io la prossima vittima. Finisce tutto qui, come mai avrei immaginato. Per mano di chi, mai, avrei creduto capace di uccidermi. Per una frazione di secondo mi colpevolizzo ancora: perché non l’ho capito? Perché non mi sono accorta che eri un mostro? E poi basta: non è mia la colpa di averti creduto una persona per bene, anche se l’inganno che mi hai teso mi costa la vita. Ho 22 anni, tanti sogni, tante speranze, tante possibilità e tutto è finito, all’improvviso, nelle tue mani. Corro, corro per proteggerle, ma tu mi afferri e mi scaraventi a terra. Si spegne tutto. La mia vita se ne va col sangue che esce dalle ferite che mi hai inferto, mentre tu guidi per ore, anche stavolta sapendo bene dove andare. Quel che resta di me e di tutto quell’amore di cui dicevi di non poter vivere senza, lo getti in fondo a un dirupo. Come fanno gli incivili con gli oggetti rotti che non servono più.