• Sab. Lug 27th, 2024

Diari Toscani

Giornale di cultura, viaggi, enogastronomia e società

La storia comincia con un mal di pancia. Prosegue con un viaggio. E finisce con un incontro. In mezzo ci sono l’amore per una donna e quello per una foglia. 

Otto dei nove milioni di ettari di foresta che ricoprivano il Paraguay fino al 1950, hanno lasciato il posto a pascoli e campi coltivati a soia transgenica, l’alimento base del mangime per animali da allevamento. Oggi il paese è tra i primi dieci produttori di carne del mondo, e la popolazione bovina è esattamente il doppio di quella umana. Ne sanno qualcosa i nativi guarani che, progressivamente, hanno visto ridursi il loro habitat naturale allo spicchio di foresta che abitano attualmente. E ne sa qualcosa anche un tipo di pianta, la più sacra per i guarani, che non vi cresceva più allo stato selvatico, almeno fino al mal di pancia di cui vi ho parlato in apertura. Questa preziosa pianta – una sorta di pianta madre nella cultura nativa –  è l’erba mate, la ka’a.

Tanto tempo fa, si usava morderne le foglie e poi bere l’acqua del fiume: questo era sufficiente per godere del loro sapore dolce amaro e per sprigionarne le proprietà stimolanti, depurative e antiossidanti. L’erba mate si beveva per purificare lo spirito, aumentare la propria forza fisica e mentale, e per entrare in connessione con la Terra. Nel corso dei secoli il trattamento delle foglie si è affinato, permettendo un’esaltazione ancora maggiore delle sue qualità dissetanti e benefiche. Il processo che porta un pugno di foglie di mate a diventare la bevanda simbolo delle popolazioni indigene del cono sudamericano è molto lungo. I rami carichi di foglie subiscono una prima, rapida essicazione – il sapecado – passandoli sopra un falò. Poi vengono stipati in una struttura chiamata tatuape, sotto la quale un fuoco basso, progettato per durare diversi giorni ad intensità costante, continua il processo di essiccamento. Ad intervalli regolari i rami vengono mischiati. Dopo tre settimane, i rami vengono esfoliati e le foglie sono pronte alla macinatura, che viene eseguita a mano in enormi tronchi cavi, che fanno da mortaio. Alla fine di questo processo, l’erba essiccata e frantumata viene lasciata riposare un anno intero affinché raggiunga il sapore ottimale.

Anche la degustazione è un processo lungo, sempre che si voglia entrare in simbiosi con il significato profondo di questa tradizione nativa, naturalmente. Una volta riempita una tazza con le foglie di mate, infatti, quest’ultime devono essere mosse delicatamente con una cannuccia di legno, la bombilla, per creare un piccolo spazio al centro dove versare una quantità d’acqua calda tale da non bagnare le foglie che stanno intorno. Sempre con la bombilla, si beve il mate formato e si ricomincia d’accapo, formando un altro spazio e versandoci altra acqua calda, in un rituale che può durare ore. Il mate, in questo senso, è soprattutto una cerimonia. Nelle comunità native, il mate è il momento della condivisione, della parola, del racconto: tutti insieme nell’oga guasù, la casa comune del villaggio, o con la famiglia nelle proprie abitazioni. Per tutte le popolazioni , nel corso dei secoli, l’hanno raccolto e poi bevuto in infusione, il mate ha avuto soprattutto una connotazione fortemente identitaria. Caratteristica che, purtroppo, si è perduta completamente con la produzione industriale. Il mate è tutt’ora la bevanda analcolica più bevuta in buona parte del sud America, e chi se ne va in giro con il thermos sotto braccio, porta del mate con sé, ma non certo quello ottenuto dalle foglie selvatiche. Le industrie alimentari paraguaiane, cilene e brasiliane producono mate in bottiglia o lattina. Sostituendo reagenti chimici al paziente lavoro del tempo, riescono a produrre una bevanda a prezzi bassissimi da distribuire localmente, ma anche in tutto il mondo, soprattutto in Siria, Libano e Stati Uniti.

Ma quello non è mate. È solo un suo surrogato senza memoria. Ma c’è un posto dove il mate è tornato ad essere quello è sempre stato. E qui inizia un’altra storia.

Tekoha Y’Api è uno sperduto villaggio di coltivatori guarani che vive in quel che resta della parte paraguaiana della foresta atlantica dell’alto Paraná. Il mate selvatico è ormai introvabile e tutti gli abitanti la comprano già pronta. Per vent’anni consumano questo prodotto industriale, pieno di chissà quali porcherie, e alla fine la moglie del tamoi, una specie di capo spirituale, dice al marito di non comprarne più perché tutte le volte che la beve le fa venire il mal di stomaco. La cosa desta una certa incredulità e diffidenza, ma l’usanza del mate è troppo importante e il tamoi non intende rinunciarvi per nessuna ragione. Così promette solennemente alla moglie: “Amore, ti giuro che berrai di nuovo il mate vero e non ti sentirai più male”, e parte alla ricerca della pianta. Lui sa dove cresce e come cercarla, suo nonno gliel’ha insegnato quando era un ragazzino. Ma l’habitat è diminuito in grandezza, e si è impoverito a causa della deforestazione selvaggia. Inoltre il loro villaggio nella foresta è circondato da proprietà private da attraversare, spesso intrufolandosi in esse di nascosto e rischiando molto, in quanto alcune sono protette addirittura da uomini armati che sparano a qualunque cosa si muova. Alla fine, nei pressi di un ruscello, trova una pianta di mate selvatica e si mette in tasca un centinaio di foglie. Torna dalla moglie e gliele offre in dono, assicurandole che queste non le faranno alcun male. Naturalmente un approvvigionamento di questo tipo non può durare a lungo: quante volte avrebbe dovuto chiedere il permesso di attraversare una proprietà privata? Quante volte avrebbe dovuto rischiare la vita? Quanto lontano avrebbe dovuto spingersi ogni volta di più? L’unica soluzione era far crescere il mate selvatico nella sua comunità. E così ha fatto. Dopo innumerevoli tentativi, la pianta del mate ha attecchito e da quel momento bere un mate genuino non è più stato un problema.

Qualche tempo fa, durante la cerimonia in cui ogni anno i giovani del villaggio ricevono il proprio nome spirituale, un artista arrivata dalla capitale – rapita dalle danze ipnotiche scandite dalla percussione di bastoni cavi e maracas – beve il mate coltivato dal tamoi, in comunione con tutti gli altri. Resta folgorata dalla diversità di quella bevanda rispetto a qualunque cosa avesse assaggiato prima di allora. La moglie del tamoi ha l’idea di farle vedere anche tutto il procedimento e la storia che si nascondono dietro ad una semplice tazza di mate. Nasce così l’idea di commercializzare la loro erba mate ad Asuncion e nel resto del mondo. Oggi l’erba mate Sea – questo è il nome che le hanno dato – appare tra i cinquemila alimenti che fanno parte dell’Arca del Gusto, un catalogo che contiene una lunga lista di prodotti alimentari che l’umanità dovrebbe preservare, curato dalla fondazione Slow Food per la biodiversità.

Nonostante il suo nome, la sua storia e i segreti della sua erba mate siano l’oggetto dei racconti dell’artista che sta vendendo e promuovendo Sea, per il tamoi di Tekoha Y’apy non è cambiato niente. Alle quattro di mattina è già in piedi. Entra nella grande casa comune a mette l’acqua a scaldare. Tra non molto lo raggiungerà la moglie, con cui condividerà il primo mate di una nuova giornata di lavoro.

I mal di stomaco sono solo un lontano ricordo.

Fonti: Dromómanos, Messico (tradotto e pubblicato in Italia da Internazionale) – Wikipedia