• Lun. Apr 29th, 2024

Diari Toscani

Giornale di cultura, viaggi, enogastronomia e società

OLTRE|FRONTIERA

Destinazione: Managua, Nicaragua

Coordinate: 12°09′03″N 86°16′06″W

Distanza da Firenze: 9.663 km

Con un discorso intriso di retorica e dai toni inusualmente autocelabrativi, il presidente nicaraguense Daniel Ortega ha annunciato la liberazione e l’esilio immediato di 222 prigionieri politici, allo scopo di liberare il paese da questi “mercenari al servizio dell’imperialismo”. Una mossa inaspettata e con le caratteristiche di un vero e proprio fulmine a ciel sereno. Ma è solo apparenza. Non si è trattato affatto di un atto di benevolenza, o meglio ancora, di ravvedimento da parte di un governo sulla carta di sinistra, ma che sta scivolando sempre più verso derive autoritarie di vecchia data, bensì di un ricatto puro e semplice, a spese di persone che, nella stragrande maggioranza, non hanno mai lasciato il paese, e per le quali l’esilio è un vero e proprio dramma. E non si è trattato neanche di una decisione improvvisa. La cosa è stata accuratamente preparata. Nelle settimane precedenti, in cambio della loro libertà, ai prigionieri  era stato imposto di firmare un documento in cui dichiaravano di rinunciare, senza condizioni e senza sapere dove sarebbero stati portati, al ritorno in Nicaragua. Solo sull’aereo avrebbero saputo che la destinazione erano gli Stati Uniti. Contemporaneamente, il Dipartimento di Stato americano stava procedendo ad emettere per tutti un visto speciale umanitario della durata di due anni, che avrebbe permesso loro di entrare nel paese alla sola condizione di avere un indirizzo di riferimento. In più, l’amministrazione Biden si era impegnata ad offrire ai rifugiati i 410 dollari a testa necessari per ottenere un permesso di lavoro, e stava allestendo una sorta di centro di accoglienza in una sala di un hotel della Virginia, dove chi non aveva nessuno a cui appoggiarsi – parenti o conoscenti emigrati o già in esilio – poteva rivolgersi, per cercare una sistemazione che gli consentisse, in qualche modo, di ricominciare una nuova vita nel nuovo paese.

Ortega, nel suo discorso, ha trionfalmente ed orgogliosamente annunciato che la liberazione non fa parte di nessuno scambio diplomatico, e che il governo non ha chiesto niente a Washington, tantomeno la rimozione delle sanzioni economiche che gravano da tempo sul paese. Ma si stenta a credere che il consistente aiuto offerto dagli americani sia stato a titolo gratuito. In ogni caso, la mossa crudele di Ortega non è stata l’esilio in se stesso, bensì un atto che è ai limiti del diritto internazionale e che ha pochi precedenti. Durante le poche ore di volo che separavano gli ex detenuti dalla Virginia, il parlamento nicaraguense ha approvato una riforma istituzionale ad hoc, che legittimava il governo a togliere la nazionalità ai propri cittadini, per motivi di sicurezza nazionale, e subito dopo ha applicato la nuova norma a tutti e 222 i prigionieri. Quest’ultimi erano a conoscenza di questa condizione, ma difronte alla possibilità di tornare liberi, nessuno ha posto obiezioni di sorta. Forse, per quelli che hanno parenti o amici pronti ad accoglierli – spesso anch’essi già in esilio – sarà più facile rinunciare per sempre alla possibilità di tornare in patria da liberi cittadini, e questo li aiuterà ad ottenere l’asilo politico; ma per coloro i quali – e sono la stragrande maggioranza del gruppo –  hanno  lasciato in Nicaragua mogli, oppure figli minorenni affidati ad altri parenti, si profila un lungo e intricato processo burocratico per riappropriarsi nuovamente di una parvenza della vita che avevano prima della loro incarcerazione, in quanto il loro status di apolidi complica moltissimo la possibilità di ottenere il ricongiungimento familiare. Saranno soli, in un paese non benevolo con gli immigrati, senza conoscere la lingua, senza affetti, alla disperata ricerca di un nuovo inizio, e privati, sulla carta, anche del senso di appartenenza alla propria terra. Se Managua, con questa sorta di liberazione punitiva, sperava davvero di riavviare un dialogo con gli USA, e di uscire dall’isolamento internazionale, come alcuni osservatori hanno azzardato, allora il regime di Ortega dimostra di attraversare una grave crisi interna.

Delle due ipotesi, la seconda – cioè quella di uno stato di “confusione” del regime – sembra essere di gran lunga la più plausibile. Prova ne è il fatto che, a distanza di pochi giorni, il governo, alzando l’asticella del suo delirio, ha reso nota una lista di 93 persone – moltissime già esilio volontario da tempo – indicate come “traditrici della patria”, e per questo private di ogni diritto in forma perpetua e illimitata, dei loro beni, nonché della possibilità di accedere a qualunque incarico pubblico, per sempre: neanche apolidi, quindi, ma veri e propri schiavi.

Dei 222 prigionieri che sono stati, di fatto, deportati negli USA, il reverendo Rolando Alvarez, si è rifiutato di lasciare il paese, preferendo il carcere a quella libertà di carta, a quella libertà vuota. Ove lo scopo della liberazione dei 222 avesse voluto essere una dimostrazione di fermezza nei confronti della base elettorale, e un tentativo di sedare un dissenso sempre più crescente, la coraggiosa scelta del religioso l’ha reso un tentativo fallimentare. E, d’altro canto, non è che con i paesi vicini e amici, le cose siano andate molto meglio. Le modalità con cui questa liberazione è avvenuta, ovvero le condizioni che sono state imposte ai prigionieri, sono state fonte di imbarazzo per le cancellerie degli altri paesi del quadrante, al punto che la loro reazione è stata un silenzio che sa tanto di isolamento. Il solo presidente del Cile Boruc ha commentato su un suo profilo social: “Non sa il dittatore, che la patria si porta nel cuore e nelle azioni, e non si toglie per decreto?”

La sala dell’hotel in Virginia si è lentamente svuotata. A quasi tutti quelli che ne hanno fatto richiesta, i volontari presenti hanno trovato una sistemazione. Fuori dalla porta girevole dell’albergo è iniziata per loro una nuova vita, anche se tra difficoltà per noi difficili da immaginare. Ma se grandi sono il sollievo di sapere che le loro vite non sono più in pericolo, e la gioia di tornare finalmente esseri umani liberi, altrettanto lo sono l’amarezza e il dolore, per quella parte d’identità che è stata loro strappata via, e che, probabilmente, non riavranno più indietro. C’è chi racconta di aver toccato l’asfalto della pista, prima di salire sull’aereo, come ultimo saluto alla propria terra, e di avere pianto. C’è chi è ancora arrabbiato, e afferma che nessun leader democratico dovrebbe mai separare le famiglie o mandare gente in esilio. Sebbene preoccupati, alcuni si sono avviati fiduciosi verso il loro incerto futuro, altri molto meno. Come un ragazzo di 24 anni che, in procinto di partire per la California insieme ad un altro prigioniero che aveva dei contatti là: “…bisogna andare avanti, fratello. Non c’è altra strada…(perché, ndr) praticamente non esistiamo”.

Non esistere. È la condizione tipica della morte o del non essere nati. Due sovrastrutture di pensiero e di azione che vanno oltre la nostra volontà o il nostro controllo. Cionondimeno, da che mondo è mondo, c’è chi si arroga di variare a suo piacimento l’altrui status di esistenza. Succede continuamente. Lo fa chi uccide, tipicamente, qualunque sia il motivo per cui uccide. Decidere di privare una persona della sua appartenenza, è di per sé un atto di barbarie altrettanto impari e distruttivo. Ma poterlo fare con un semplice tratto di penna, è semplicemente spaventoso.

Fonte: Internazionale, Internazionale Newsletter, Wikipedia