Celebriamo, quest’oggi 19 gennaio, il compleanno di uno dei geni letterari più influenti ma anche più sventurati della storia. Proprio oggidì, nel 1809, veniva alla luce nientemen che il grande Edgar Allan Poe. Anche se il termine “venire alla luce” stride alquanto con una vicenda umana e poetica, la sua, disperatamente contrassegnata dall’oscurità più tenebrosa, fatta di brivido, terrore, raccapriccio, disturbi mentali, alienazione, solitudine ed abuso di droghe ed alcoolici. Il graffito di oggi ci viene incontro in questa nostra umile ma sentita celebrazione. Sulla fiancata di uno degli stipiti marmorei che incorniciano la splendida facciata del nostro Teatro Degli Animosi, ciò che rimaneva di un manifesto anarchico affisso su quello stesso muro, diviene pretesto, da parte dell’ignoto writer di turno, per riproporre, in estemporanea litografia su parete, i corvacci rappresentati sul brandello di carta a fianco.
Ed una delle poesie più celebri del Poe è titolata, per l’appunto, “Il Corvo” (The Raven). In lingua originale, un autentico capolavoro di atmosfera, di metrica e di musicalità, dove l’assonanza tra le parole predomina praticamente in ogni verso. Il componimento in questione è incentrato sulla vicenda di un amante ancora in pena per la sua donna morta. Mentre l’infelice innamorato medita su un grande volume, a mezzanotte, “con grande strepitio d’ali”, riceve la visita di un corvo che non farà altro che ripetere monotonamente, ai reiterati quesiti che gli vengono rivolti dal protagonista, la parola “Nevermore” (Mai più).
Sapete come la penso sull’interpretazione delle poesie. Se non lo sapete, ve lo dico: ritengo che, qualsiasi analisi preconfezionata delle medesime sia, per definizione, parziale e falsa.
Ogni interpretazione può essere infatti, di per sè, corretta, perchè ognuno di noi ha la propria, personalissima ed inimitabile. Che prescinde da quella di millemila altri commentatori e critici letterari, per quanto illustri.
In sostanza, quando io leggo una poesia, mi ispirerà un pò quello che pare a me, dico male???
Alla luce (o, meglio, alla tenebra) di ciò, recatevi oggi al cospetto di questo graffito e fate come quel visitatore sconosciuto, comunemente denominato “Poe Toaster” (brindante a Poe), che rese solitario omaggio alla tomba dello scrittore ogni anno, a partire dal 1949.
Ed il tributo era sempre lo stesso.
Ogni 19 gennaio, nelle prime ore del mattino, questo misterioso personaggio faceva un brindisi con cognac presso la lapide originale di Poe, lasciando tre rose.
Se vi va, fate altrettanto.
Ma prima, se non la conoscete, leggetevi la poesia, e, se anche la conoscete, rileggetevela.
Anche dinanzi ad un indiscusso maestro dell’orrore, non abbiate timore: se vi dovessero prendere per pazzi, Edgar sicuramente apprezzerà. E, se vi dovessero prendere talmente per pazzi da chiamare la Neuro, al limite lo omaggerete oggi e non lo rifarete…. “Nevermore” (Mai più)😅🐦⬛.
Happy Birthday, Edgar Allan🎂
IL CORVO
Una volta, a mezzanotte, mentre stanco e affaticato
meditavo sovra un raro, strano codice obliato,
e la testa grave e assorta — non reggevami più su,
fui destato all’improvviso da un romore alla mia porta.
Un viatore, un pellegrino, bussa, dissi, alla mia porta,
solo questo e nulla più!
Oh ricordo era il dicembre e il riflesso sonnolento
dei tizzoni in agonia ricamava il pavimento.
Triste avevo invan l’aurora — chiesto e invano una virtù
a’ miei libri, per scordare la perduta mia Lenora,
la raggiante, santa vergine che in ciel chiamano Lenora
e qui nome or non ha più!
E il severo, vago, morbido, ondeggiare dei velluti
mi riempiva, penetrava di terrori sconosciuti!
tanto infine che, a far corta — quell’angoscia, m’alzai su
mormorando: è un pellegrino che ha battuto alla mia porta,
un viatore o un pellegrino che ha battuto alla mia porta,
questo, e nulla, nulla più!
Calmo allor, cacciate alfine quelle immagini confuse,
mossi un passo, e: «Signor» — dissi, o signora, mille scuse!
ma vi giuro, tanto assorta — m’era l’anima e quassù
tanto piano, tanto lieve voi bussaste alla mia porta,
ch’io non sono ancor ben certo d’esser desto». Aprii la porta:
Un gran buio e nulla più!
Impietrito in quella tenebra, dubitoso, tutta un’ora
stetti, fosco, immerso in sogni che mortal non sognò ancora!
ma la notte non diè un segno, il silenzio pur non fu
rotto, e solo, solo un nome s’udì gemere: Lenora!
Io lo dissi ed a sua volta rimandò l’eco: Lenora!
Solo questo e nulla più!
E rientrai! ma come pallido, triste in cor fino alla morte
esitavo, un nuovo strepito mi riscosse, e or fu sì forte
che davver, pensai, davvero — qualche arcano avvien quassù,
qualche arcan che mi conviene penetrar, qualche mistero!
lasciam l’anima calmarsi, poi scrutiam questo mistero!
Sarà il vento e nulla più!
Qui dischiusi i vetri e torvo, — con gran strepito di penne,
grave, altero, irruppe un corvo — dell’età la più solenne:
ei non fece inchin di sorta — non fe’ cenno alcun, ma giù,
come un lord od una lady si diresse alla mia porta,
ad un busto di Minerva, proprio sopra alla mia porta,
scese, stette e nulla più.
Quell’augel d’ebano allora, così tronfio e pettoruto
tentò fino ad un sorriso il mio spirito abbattuto:
e, sebben spiumato e torvo, — dissi, un vile non sei tu
certo, o vecchio spettral corvo della tenebra di Pluto?
Quale nome a te gli araldi dànno a corte di Re Pluto?
Disse il corvo allor: «Mai più!».
Mi stupii che quell’infausto disgraziato augello avesse
la parola, e benché quelle fosser sillabe sconnesse,
trasalii, chè, in niuna sorta — di paese fin qui fu
dato ad uom di contemplare un augel sovra una porta,
un augello od una bestia aggrappata ad una porta
con un nome tal: Mai più!
Ma severo e grave il corvo più non disse e stette come
s’egli avesse messo tutta quanta l’anima in quel nome:
sovra il busto, appollaiato — non parlò, non mosse più
finchè triste ebbi ripreso: altri amici m’han lasciato!
il mattin non sarà giunto ch’egli pur m’avrà lasciato!
Disse allor: Mai più! mai più!
Scosso al motto ch’or sì bene s’era apposto al mio pensiere,
certo, dissi, queste sillabe sono tutto il suo sapere!
e chi a tale ritornello — l’addestrò, forse quaggiù
sarà stato sì infelice ch’ogni canto suo più bello,
come un requiem, non aveva ogni canto suo più bello
a finir che in un mai più!
Ma un pensier folle ancor voltomi a un sorriso il labbro torvo,
scivolai su un seggiolone fino in faccia al busto e al corvo,
e qui, steso nel velluto — presi intento a studiar su
cosa mai volesse dire quel ferale augel di Pluto,
quel feral, sinistro, magro, triste, infausto augel di Pluto
col suo lugubre: «mai più.»
Così assorto in fantasie stetti a lungo, e sempre intento
all’augello i di cui sguardi mi riempivan di spavento,
non osai più aprire labro — sprofondato sempre giù
fra i cuscini accarezzati dal chiaror di un candelabro
fra i cuscini rossi ov’ella, al chiaror di un candelabro,
non verrà a posar mai più!
Allor parvemi che a un tratto si svolgesse in aria, denso
e arcan, come dal turibolo d’un angelo, un incenso.
O infelice, dissi, è l’ora! — e infin ecco la virtù
e il nepente che imploravi per scordar la tua Lenora!
Bevi, bevi il filtro e scorda! scorda alfin questa Lenora!
Mormorò l’augel: Mai più!
O profeta, urlai, profeta, spettro o augel, profeta ognora!
o l’averno t’abbia inviato — o una raffica di bora
t’abbia, naufrago, sbalzato — a cercar asil quassù,
in quest’antro di sventure, di’ al meschino che t’implora,
se qui c’è un incenso, un balsamo divino! egli t’implora!
Mormorò l’augel: Mai più!
O profeta, urlai, profeta, spettro o augel, profeta ognora!
per il ciel sovra noi teso, per l’Iddio che noi s’adora
di’ a quest’anima se ancora — nel lontano Eden lassù,
potrà unirsi a un’ombra cara che chiamavasi Lenora!
a una vergine che gli angeli ora chiamano Lenora!
Mormorò l’augel: Mai più!
Questo detto sia l’estremo, spettro o augello, urlai, sperduto!
Ti precipita nel nembo! torna ai baratri di Pluto!
non lasciar piuma di sorta — qui a svelar chi fosti tu!
lascia puro il mio dolore, lascia il busto e la mia porta!
strappa il becco dal mio cuore! t’alza alfin da quella porta!
Disse il corvo: Mai, mai più!
E la bestia ognor proterva — tetra ognora, è sempre assorta
sulla pallida Minerva — proprio sopra alla mia porta!
Il suo sguardo sembra il guardo — d’un dimon che sogni, e giù
sui tappeti il suo riflesso tesse un circolo maliardo,
e il mio spirto, stretto all’ombra di quel circolo maliardo!
non potrà surger mai più!
(Federico Garrone, Ernesto Ragazzoni. Edgar Allan Pöe. Torino, Roux Frassati, 1896. Fonte: Google Books)