C’era una volta l’Ape, il mitico tre ruote della Piaggio. Ma chiamarla “macchina” sarebbe un insulto. Era un’icona, una leggenda, il simbolo di un’Italia che, con due lire e tanta voglia di fare, riusciva a cavarsela. L’Ape era dappertutto: nei campi, nelle stradine dei paesi, davanti alle botteghe, e anche nei nostri cuori. Era la compagna fedele di chi si spaccava la schiena ogni giorno. Contadini, artigiani, piccoli imprenditori: tutti avevano un’Ape. Con il suo rombo gracchiante e la sua caparbietà, aiutava a mandare avanti il Paese. L’Ape era perfetta per quei tempi. Un po’ come noi, non si fermava mai. Era un simbolo di un’Italia che si arrangiava e che, nonostante tutto, andava avanti. Un’Italia che non c’è più. L’abbiamo sacrificata sull’altare della globalizzazione, dove le regole del mercato hanno il sopravvento sui valori di una volta. Chi oggi comprerebbe un’Ape per mandare avanti la propria attività? L’idea stessa di “piccola impresa familiare” sembra un ricordo lontano, schiacciata da centri commerciali e piattaforme online. E adesso? Fine della storia. Dopo 76 anni, l’Ape saluta Pontedera e si trasferisce in India. Lì continueranno a produrla, ma sarà ancora la nostra Ape? Quella che si spingeva oltre ogni limite, che arrancava carica come un mulo e che trasformava il poco in tanto?

L’Ape non era solo un mezzo di trasporto. Era la protagonista di mille storie, anche delle nostre. Io ricordo ancora la Catè, una contadina e pastora di Massa, che arrivava ad Avenza con la sua Ape carica di verdura fresca e latte appena munto. Era un rito: noi bambini della Grotta aspettavamo il suo arrivo con il fiato sospeso. E quando sentivamo quel motore in lontananza, abbandonavamo tutto. E dico tutto: le partite di calcio al campetto, le “gomminate”, le “palline”, perfino il mitico “piastrenbolo”. Non c’era gioco che potesse competere con l’Ape della Catè. Correva piano, e noi le andavamo incontro a perdifiato, gridando a squarciagola: “Catè! Catè!”. Qualcuno cercava perfino di saltarci sopra. Lei rideva, con il viso stanco ma felice. Portava con sé non solo latte e verdure, ma quel profumo di campagna che riempiva la strada e i nostri cuori. Noi bimbi degli anni ’70 eravamo un po’ selvaggi, con le ginocchia sbucciate convivevamo con il puzzo della Rumianca e la nuvola di fumo della ciminiera della Cokapuania, e la voglia di avventura sempre accesa. Era l’epoca di Happy Days, di Bettega e Antognoni: quando la TV era meno invadente e i videogiochi non avevano ancora fatto irruzione nelle nostre vite. Vivevamo un’infanzia libera, tra fantasia e giochi all’aperto, lontana dalla frenesia digitale degli smartphone. Eravamo ancora legati allo spirito della Guerra dei Bottoni, ai western di John Wayne, al Tarzan di Weissmuller e ai giornalini di Tex Willer, Zagor e Il Monello. E poi c’erano gli album delle figurine Panini che ci tenevano con il naso immerso nel tentativo di completare ogni squadra, scambiando i doppioni in ogni angolo possibile: “Celo, celo, mici !”. E poi i gelati: la mitica Coppa dei Campioni, un lusso per pochi, e per i più fortunati, il gelato di Rigoletto. C’erano le fumose cantine dove i nostri babbi si radunavano per giocare a carte; spesso toccava a noi andare a chiamarli. Ricordo ancora l’odore acre del fumo di sigaretta che mi avvolgeva quando entravo in cantina, un misto intenso che si mescolava al profumo del vino e al lieve odore di muffa delle antiche mura. Le voci, in dialetto, rimbombavano tra le pareti, creando un’atmosfera intima e un po’ misteriosa. Era il tempo, ahimè, delle Nazionali senza filtro, di mani ingiallite e di vino bevuto tra amici nei “bicchiereti” o nelle più capienti “cavallerie”, mentre noi, bambini, aspettavamo fuori o curiosavamo tra i tavoli in marmo.
Nel tempo in cui l’Ape lascia l’Italia per sempre, non posso fare a meno di pensare a quei giorni. Tempi più semplici, dove un rombo in lontananza bastava a riempire di gioia un gruppo di bambini. Quell’attesa, quella corsa verso l’Ape della Catè, quei giochi interrotti di colpo, i pomeriggi passati a sfogliare i giornalini, a scambiare figurine o a cercare un padre in una affollata cantina: momenti che oggi sembrano così lontani, ma che vivono ancora dentro di me; nei ricordi di un’Avenza che non c’è più. E allora, con un sorriso un po’ amaro, penso: bei me’ tempi! Addio, Ape. Addio, Catè. Addio, Italia di una volta.