Ricordo ancora perfettamente la sera d’estate in cui, con la mia moglie, la mia Sara, decidemmo di andare a far due passi in centro città, per mescolarci a quella che oggi si può definire la “movida”. Di fianco al teatro Guglielmi, in uno spazio di non più di due metri per tre, due ballerini si stavano esibendo in un delizioso “tango al piso”, cioè tango a pavimento, ossia senza spettacolari figure acrobatiche, ma con eleganti passi che incantavano i numerosi spettatori presenti. Fu un colpo di fulmine, tanto che lei mi fece promettere che un giorno avremmo imparato a ballare il tango. Poi, si sa, il tempo passa, si diventa nonni, si va in pensione, però certe cose, che sembrano dimenticate, restano in fondo alla memoria, finché un giorno conoscemmo una coppia di amici che frequentavano una scuola di tango. Eccolo lì il ricordo di quella promessa che, improvvisamente, balza fuori più vivido che mai: e, allora, perché non realizzarlo?
E così, alle nove di una sera, decidemmo di andare alla scuola di ballo il cui insegnante, da non credere, era Hector, lo stesso ballerino che anni prima ci aveva incantato in quella serata estiva. Hector per prima cosa ci spiegò che il tango non è un ballo, bensì una danza, equiparata cioè alla danza classica, ma, ancor meglio, un sentimento di parole e musica che si può “anche” ballare. Questa danza, un quattro quarti di origini afro-cubane, sembra che abbia avuto le proprie origini dalla habanera per diffondersi successivamente, prima come milonga, un due quarti, nei “barrio” malfamati argentini ed uruguagi, ballata inizialmente da soli uomini, in genere immigrati italiani, quale passatempo nei momenti liberi dal loro duro lavoro, finquando anche le donne ne scoprirono il fascino e la bellezza.
Successivamente, esportata in Europa, creò scandalo per le movenze giudicate lascive tanto da essere bandita dalle corti europee. I vescovi francesi arrivarono addirittura a chiederne la scomunica a Papa Pio X, il quale, nel 1914, incuriosito, volle assistere ad una esibizione al termine della quale, pur giudicandolo inferiore alla “furlana”, una tipica danza di coppia veneta a lui ben nota, in quanto ex Patriarca di Venezia, non lo ritenne poi così sconveniente da meritare una scomunica.
Trilussa, riferendosi a questo episodio volle comporre una poesia:
“Er Papa nun vo’ er tango perché, spesso,
er cavajere spigne e se strufina
sopra la panza de la ballerina
che su per giù, se regola lo stesso.
Invece la Furlana è più carina:
la donna balla, l’omo je va appresso,
e l’unico contatto chè permesso
se basa sur de dietro de la schina.
Ma un ballo ch’è der secolo passato
co’ le veste attillate se fa male:
e er Papa, a questo, mica cià pensato;
come voi che se movino? Nun resta
che la Curia permetta in via speciale,
che le signore s’arsino la vesta”.
Così sdoganato il tango invase il mondo. Nacquero grandi orchestre di tango, i cui più celebri direttori, Esposito, Pugliese, Troilo, Di Sarli, D’Arienzo, erano tutti di origini italiane ed i grandi interpreti, fra i quali primeggia, ancor oggi incontrastato, Carlos Gardel prematuramente scomparso in un incidente aereo sui cieli di Medellin. Fu introdotto un nuovo strumento, il Bandoneon, che per le sue sonorità meglio interpretava la poetica tanguera.Il Bandoneon era in origine un organetto che, nelle chiesette tedesche più umili, sostituiva il più costoso organo. Fu portato in Argentina da un immigrato, un liutaio di nome Heinrich Band, il quale, visto il suo successo, impiantò una fabbrica, la Band Union, da cui il nome argentino Bandoneon.
Ben pochi sanno che il grande Astor Piazzolla, che del bandoneon fu il più virtuoso interprete, vantasse origini… massesi. La nonna, tale Mannini originaria di Pariana, infatti andò in sposa a Pantaleone Piazzolla, un pescatore di Trani, che decise di emigrare in Argentina a seguito del naufragio della sua barca. Dalla loro unione nacque Vincente Piazzolla, padre di Astor, chiamato dai nipoti “Nonino” come la celebre composizione che il figlio volle a lui dedicare in occasione della sua morte.
Il tango ha continuato ad evolversi e, con l’introduzione della batteria, i Gotan Project sono riusciti a dare ancora nuove sonorità a questa stupenda danza. Per inciso Gotan non è altro che la trasposizione di sillabe, per indicare il tan go, ripresa dal dialetto “lunfardo” che si parlava a Buenos Aires nei quartieri malfamati, per non farsi capire dalla polizia dove, ad esempio, al posto di “cafè con leche” su diceva “feca con chele”.
Ora non voglio tediare con le lezioni ed i passi di tango imparati da me a fatica, mentre Sara dimostrava una notevole facilità nell’apprendere: caminada, baldosa, salita basica, ocho adelante ed a tras, parada e così via, ma vorrei soffermarmi sulla filosofia del tango.
Esistono in tutto il mondo delle sale da ballo, le Milongas, da non confondere con l’omonima danza, molto ampie, contornate da tavoli e con il pavimento perfetto dove gli appassionati vanno a ballare il tango seguendo dei rigidi rituali; intanto, al contrario delle nostre discoteche, i milongueros, sia uomini che donne, non vanno per incontrarsi attraverso il ballo ed installare eventualmente nuove relazioni, ma solo per ballare. L’uomo e la donna, seduti ai rispettivi tavoli, esplorano la sala con gli sguardi e quando questi s’incontrano e si soffermano la coppia è formata.
Non si parla mai, ma ci si appresta solo a ballare una “tanda” cioè una serie di quattro o cinque tanghi, tre “vals”, un tango tre quarti derivato dal valzer e tre o quattro rapide milongas scelti dal “musicalizador”, il nostro Dee jay per intenderci, alla fine della quale inizia la “cortina”, una musica non ballabile, che serve a svuotare la sala per facilitare la formazione di nuove coppie, a meno che la donna, con un semplice sguardo non faccia capire all’uomo che desidera ancora ballare con lui.
I ruoli sono ben precisi, l’uomo, il Tanguero, ha il compito di scegliere le varie figure che s’accordano con il tipo di ballo, soffermandosi poi per permettere alla donna, la Seguidora, di abbellire con i movimenti del corpo ed i disegni dei piedi sul “piso” ciò che il Tanguero le ha proposto; ad un certo punto, quando l’intesa diventa perfetta, i ruoli non si distinguono più e la coppia diventa un tutt’uno nell’interpretare il meraviglioso dialogo del tango. Il tango, insomma, ripropone in sedicesima quella che dovrebbe essere la filosofia di chi decide di percorrere assieme il cammino della vita.
Paolo Conte, a tal proposito, ebbe a dire: “Il tango sta alla vita come la lucertola sta al coccodrillo”
Non sono mai stato, al contrario di mia moglie, un gran virtuoso del tango, ma, assieme, come nella vita, abbiamo formato una bella coppia. Oggi, dopo la sua scomparsa, mi capita spesso di riascoltare le struggenti melodie di “Volver” o de “La noche que ma quieras” e di ricordare, ricordare, ricordare.
Un consiglio? Indipendentemente dall’età, approcciatevi al tango, comincerà per tutti una nuova primavera.