ottava puntata

Dopo il lavoro, Hyeok si fermava sempre a bere qualcosa in un locale vicino casa. È un privilegio per pochi, questo, in un paese come la Corea del Nord. Ma Hyeok, in brevissimo tempo, era diventato uno di quei pochi, avendo raggiunto un benessere raro nel paese, se non sei un funzionario del partito o un ufficiale dell’esercito. Quindi, a parte qualche rara eccezione in cui uno o più amici lo raggiungevano, la stragrande maggioranza delle volte beveva da solo, arrampicandosi sui suoi pensieri. Fu durante una di queste serate in solitaria che, nel 2019, sul suo telefono apparve un messaggio inquietante. Proveniva da un numero sconosciuto. L’autore si definiva “un’amico di una ragazza del sud che dice di conoscerti bene”. Il messaggio era molto stringato. Diceva che questa ragazza si trovava in Corea del Sud e che avrebbe voluto parlargli. Poi si concludeva con una specie di appuntamento: “Vieni a Hyesan, chiamami a questo numero, e potrete sentirvi”. Per Hyeok fu una specie di trauma. Per alcuni giorni il suo stato d’animo fu conteso da una lunga serie di sentimenti contrastanti, che si alternavano freneticamente al comando della sua mente e del suo cuore. Come aveva potuto fargli questo? Il suo silenzio e la sua sparizione non erano già stati abbastanza? Non solo riappariva dopo tre anni di silenzio, ma gli chiedeva di fare una cosa molto pericolosa. Hyesan è una cittadina di frontiera, su al nord. Hyeok sapeva che in quelle zone, con il telefono giusto, si può sfruttare la vicinanza con la Cina e agganciarsi alla sua rete, visto che in Corea del Nord non c’è internet, almeno per i cittadini comuni. Ma sapeva, anche, che ogni contatto con il sud era visto con sospetto, e come un potenziale pericolo. Anche il solo aver accettato di prendere la chiamata poteva essere sufficiente a farlo arrestare come spia. Avendo lavorato per l’apparato, inoltre, non si sentiva di escludere completamente la possibilità che il suo telefono e i suoi movimenti fossero sotto controllo, già dal giorno stesso in cui aveva deciso di fuoriuscirne. Poi c’erano la madre e la sorella minore, anche loro avrebbero potuto subire conseguenze. Quando pensava a tutto questo, non c’era sentimento negativo che non provasse. Ma poi, subito dopo la rabbia, la frustrazione, l’orgoglio e la paura pura e semplice, subentravano nostalgia, ammirazione e, soprattutto, curiosità. La curiosità per un mondo talmente diverso e – a detta sua – pieno di opportunità, che Joo aveva rischiato la vita due volte pur di raggiungerlo. E ci era riuscita.
A parte magnificare l’idillio socialista e i suoi virtuosi effetti sulla grande nazione nordcoreana, la propaganda di regime era sempre stata incentrata sulla demonizzazione delle società occidentali, quella americana per prima, decadenti e fondate sulla disparità, dedite ad un feroce arricchimento personale, e allo sfruttamento del lavoro e delle risorse altrui. Ma forse non era davvero così. Forse vivevano tutti in un’illusione. Forse quest’altro mondo non solo era possibile, ma persino desiderabile. Non ci aveva mai pensato, in realtà. E perché avrebbe dovuto? Hyeok era un privilegiato, il suo reddito mensile era molto al di sopra della media nazionale, e la sua vita molto più che dignitosa. Non gli mancava nulla per essere felice. Però, a volte, gli mancava Joo. Ancora e nonostante tutto. Il messaggio non aveva fatto altro che riattizzare il fuoco. Ma c’era dell’altro. Durante quei giorni tribolati, si era fatto strada in Hyeok – fino a diventare inesorabilmente preponderante – il bisogno disperato di parlare con lei, una sorta di urgenza dell’anima, come se tutta la sua vita futura dipendesse da questo. E l’idea di dover rinunciare a questa opportunità, soltanto per la paura di eventuali conseguenze, non gli andava proprio giù. Era giusto ribellarsi. Joo l’aveva fatto. Perché, nel suo piccolo, non poteva farlo anche lui?
Lui era lì. Adesso e vicino. In realtà, più di quattrocento chilometri di distanza li dividevano. Ma per Joo era vicinissimo. Quasi poteva vederlo e sentirlo, così spaesato, così fragile, così arreso davanti a quella situazione assurda. Hyeok, infatti, non diceva una parola, ma Joo sapeva che la stava ascoltando.
<Sei tu? Oppa?…rispondimi, dimmi qualcosa…anche solo ciao >.
Dall’altra parte, però, solo qualche rumore di fondo e gli screpitii di una linea debole e disturbata. Ad un certo punto Joo si mise a piangere. Poi la telefonata s’interruppe di colpo. L’intermediario gli aveva strappato il telefono di mano e aveva chiuso la chiamata, nervosamente.
<Ascolta ragazzo…qui stiamo rischiando grosso…e io rischio più di te. Joo ha smosso mari e monti per parlarti. Non so che cazzo sia successo tra di voi e non lo voglio nemmeno sapere: domani fatti trovare di nuovo qui alla solita ora. Ci riproviamo, ma guarda di ritrovare la voce coglione o non mi rivedi più, così se vuole parlarti dovrà rifarsela a piedi, senza aiuti stavolta>.
Il tizio diede un’occhiata furtiva intorno a sé. Poi si abbassò e dispiegò a terra un fazzoletto di stoffa piuttosto ampio. Vi posò il telefono e lo avvolse nella stoffa, poi, con fare esperto, distrusse il telefono con tre calci secchi in rapidissima sequenza. A Hyeok quel rumore suonò sinistro tanto da farlo trasalire: un minuto prima quel telefono conteneva la voce e l’essenza di Joo, ed ora era in mille pezzi, senza vita, dentro un pezzo di stoffa bianco, come in una sorta di sudario. Sempre con mosse rapide e senza incertezze, l’uomo prese il fagotto e si avviò verso una vicina grata fognaria e rovesciò accuratamente il contenuto all’interno dopo aver alzato la grata. Poi l’uomo si allontanò velocemente, senza degnarlo di uno sguardo, né di un saluto.
Il saluto ai propri leader, è un onore che i nordcoreani si devono guadagnare, distinguendosi nella loro attività. Che tu sia un contadino o un medico, devi eccellere e solo allora ti verrà concesso l’onore di incontrarli nelle loro bare di vetro. L’accesso al mausoleo dove vengono contenuti i corpi imbalsamati dei leader e i loro cimeli, non è pubblico. O almeno, non nel senso che intendiamo noi. Non è una struttura museale. È un luogo di culto vero e proprio, l’unico riconosciuto, tipico di uno degli ultimi avamposti del socialismo marxista-leninista applicato. La professione di qualunque credo o ideologia che non sia il Juche di stato, è un reato grave. Il Juche è una dottrina politico sociale di derivazione marxista, che propugna una fedeltà incondizionata agli ideali della rivoluzione, incarnati dal fondatore della nazione Kim Il-Sung, enfatizzando l’individuo, lo stato e la sua sovranità, e postulando che la prosperità di una nazione possa essere ottenuta solo attraverso una sua completa indipendenza economica, politica e militare. Niente è più importante dell’interesse della nazione. Ogni sforzo, ogni aspirazione personale deve tendere a questo. E non c’è gratificazione più grande di aver contribuito al raggiungimento di questo obiettivo. Ecco perché la fuga è un tradimento vero e proprio. Il paese è forte e rispettato nel mondo, e fornisce al cittadino tutto quello di cui ha bisogno. Perché fuggire? All’inseguimento di cosa? Casa, scuola e cure mediche sono gratuite, la disoccupazione non esiste, non ci sono senza tetto, non c’è gente che fa l’elemosina o immigrati disperati che cercano di venderti un paio di calzini. Ogni mese il governo spedisce ad ogni famiglia una certa quantità di generi alimentari basilari. La criminalità è bassissima. I mezzi pubblici, così come i muri e le fermate della metropolitane, sono puliti, senza graffiti e in perfette condizioni. I soldati sono addestrati al combattimento, ma vengono utilizzati per ogni tipo di lavoro socialmente utile, persino nelle costruzioni. Non è raro vedere una palazzo di venti piani venire su in un mese. Se un’autostrada è impercorribile a causa della neve, centinaia di persone sono mobilitate per sgomberarla con le pale. La gente comune deve dedicare una parte del suo tempo libero a svolgere lavori a beneficio della collettività, come pulire le gradinate dei monumenti, prendersi cura degli spazi pubblici come giardini e strade, e così via.