
settima puntata
Andrà tutto bene. Questo si ripeteva in continuazione Joo, prima che il suo indice facesse scivolare verso l’alto l’icona verde che identifica il comando “chiama” del suo IPhone. In realtà, non aveva idea della persona che avrebbe risposto. Le probabilità che la telefonata andasse male erano molto alte. Non aveva mai smesso di pensare a Hyeok, l’amore che aveva abbandonato in Corea del Nord, tre anni prima, senza dirgli niente, sparendo da un giorno all’altro, come un fantasma. Ma per quello che ne sapeva lei, Hyeok poteva aver messo su famiglia, relegandola in una stanzetta buia della sua memoria, come si fa con un ricordo triste, imbarazzante, o di cui ci si vuole sbarazzare. Joo aveva ripreso gli studi e si preparava a diventare insegnante. La madre stava bene, e anche la sorella era ritornata a scuola. Erano tutte e cinque al sicuro adesso, lì a Seoul. Joo e la zia erano arrivate nel centro di prima accoglienza di Seoul a dicembre del 2015, dopo quasi due mesi di viaggio avventuroso, ma senza intoppi. La madre, la sorella e la cugina, invece, avevano rischiato di essere catturate pochi giorni dopo essersi separate perché si erano perse. Il telefono si era scaricato, perché era stato lasciato acceso per sbaglio anche durante la notte. Senza cibo, né acqua, avevano vagato per giorni nella campagna cinese disabitata. Sapevano di dover stare lontano dai villaggi, ma non c’era altra soluzione che chiedere aiuto a qualcuno. L’alternativa era la morte per sete, per fame, per congelamento, o per l’attacco di qualche animale selvatico affamato, e, poi, bisognava ripristinare in tutti i modi il telefono. Così si erano dirette verso un centro abitato abbastanza grande, che avevano notato da un’altura. Sulle strada polverosa, alle prime luci dell’alba, passava solo qualche contadino in bicicletta che si recava nei campi. Nessuno aveva fatto caso a loro: una nuova, massacrante giornata di lavoro li attendeva e non avevano né il tempo e né la voglia di farsi troppe domande. A nemmeno un chilometro dal paese, raggiunta da una strada secondaria, altrettanto polverosa ma più stretta, sorgeva una piccola casa. Il suo relativo isolamento la rendeva ideale per fermarsi. Era una costruzione moderna, molto decorosa, e c’era una macchina parcheggiata nello spazio ghiaioso antistante la facciata, con fioriere a delimitarne e il perimetro, tutti indici di una famiglia relativamente benestante. Bussare e chiedere aiuto, quindi, era doppiamente un rischio, ne erano tutte consapevoli, ma non c’erano alternative. Quando la porta si era aperta, davanti a loro era apparsa una giovane donna, ancora in vestaglia, con un rossetto in mano. Doveva aver pensato che fosse il marito tornato per qualcosa che si era dimenticato, perché la donna, in un primo momento, aveva lasciato la porta socchiusa e si era allontanata, senza neanche affacciarsi o chiedere chi era, ma poi, dopo aver detto qualcosa a voce alta, da un’altra stanza, e non aver ricevuto risposta, era tornata.
Era tornata bambina. Vedendo quelle due ragazzine e quella donna ferme davanti alla porta di casa sua, in quelle condizioni miserevoli, aveva fatto un salto indietro nel tempo, quando anche lei insieme alla sorella e alla madre, poverissime, andavano di casa in casa a mendicare un lavoro, qualunque tipo di lavoro. Stavano tutte a testa bassa. Dopo qualche secondo, la donna aveva alzato lo sguardo. I suoi tratti non sembravano esattamente cinesi, sebbene il viso pieno di ferite e molto sporco non lasciasse trapelare granché, a parte una sofferenza dalle radici lontane.
<Non ho soldi con me…> aveva detto la donna scuotendo leggermente il capo.
< No…nessuno soldi…>. E in un attimo era stato tutto chiaro.
< Parlare tu poco mia lingua? > Lei aveva annuito e aveva continuato in coreano, mentre le due ragazzine tenevano la testa bassa, come se si vergognassero di essere lì.
<Siamo in fuga dalla Corea del Nord, ci siamo perse. Non abbiamo più cibo, né acqua. Non dormiamo da molti giorni…abbiamo bisogno di ricaricare questo- le aveva mostrato un cellulare di un modello sconosciuto – Per incontrarci con la nostra guida:dobbiamo raggiungere la Thailandia per consegnarci alle autorità ed entrare in Corea del Sud. Vogliamo solo essere libere…voglio dare loro un futuro>
La sconosciuta aveva scelto la verità, nuda e cruda. Ciò voleva dire che si era trovata difronte ad una donna disperata, ma intelligente e lucida al punto di aver deciso in pochi secondi la strategia migliore per ottenere quello di cui aveva bisogno. Ma lei non era da meno.
< State rischiando molto, potrei denunciarvi. Mio marito sarebbe qui in pochi minuti con una squadra di ricerca e vi troverebbero anche se scappaste. Darebbe un grande slancio alla sua carriera…state rischiando molto> La donna aveva continuato a fissarla. Aveva capito che non stava mentendo. Ma non aveva perso il controllo e la sua risposta l’aveva spiazzata.
<Tu non hai figli…> La donna aveva ragione.
Non si capacitava di come avesse fatto, senza nemmeno aver messo piede in casa, ma di sicuro l’aveva capito. Forse dallo sguardo, forse dal silenzio. Si dice che tutte le madri del mondo, in qualche modo, siano connesse. Quando era povera, qualcuno l’aveva aiutata, e adesso aveva una bella casa, un marito che l’amava e la prospettiva di una vita serena, anche se senza figli. Era in debito con il destino, e ora le veniva chiaramente offerta la possibilità di bilanciare il suo kharma. Bisognava solo avere un poco di coraggio.
<Vi nasconderete in quel capanno degli attrezzi. Mio marito voleva coltivare un orticello, ma c’ha rinunciato subito: è chiuso con un lucchetto, non ci va da anni. Se cambiasse idea gli dirò che ho perso la chiave e lui rinuncerà senza fare storie. Ogni giorno comprerò un po’ di cibo e ve lo porterò: qualcosa mangerete e qualcosa lo conserverete per continuare il viaggio, quando vi sentirete pronte ripartirete. Questo lo prendo io…- aveva porto la mano alla donna affinché le passasse il telefono, poi aveva aggiunto: – …con il suo caricatore: non c’è elettricità nel capanno>.
La madre di Joo le aveva lanciato uno sguardo che valeva tutte le parole del mondo, ma le aveva dato il cellulare e il caricatore, come richiesto: <Ti dovrai fidare>. La donna aveva accennato un movimento di approvazione con la testa, poi, era tornata un attimo in casa per ricomparire subito dopo. Le ragazzine erano ancora lì con la testa piegata in avanti, immobili. <Venite con me, metto in carica il cellulare e ve lo porto domani con il pranzo>. Erano state le ultime parole che aveva rivolto alle fuggitive. Il terzo giorno di permanenza nel capanno, la madre di Joo le aveva detto che sarebbero partite quella notte. Senza sapere neanche i loro nomi, le aveva viste allontanarsi di corsa verso il bosco, seguendole dalla finestra della cucina, assaporando l’ultima sigaretta della giornata, e sorprendendosi ad invidiare, un po’ stranamente, quella vulnerabile libertà, e il loro futuro ancora tutto da immaginare.
Per Joo, immaginare che avrebbe potuto riabbracciarle, ad un certo punto, era diventato impossibile. Ma dopo settimane e settimane di silenzio angosciante, finalmente era arrivato un messaggio: la madre, la sorella e la cugina stavano bene ed erano in viaggio. Sul momento Joo non aveva compreso il significato della frase, ma quando finalmente si erano ritrovate a Seoul, nel febbraio del 2016, due mesi dopo l’arrivo di Joo e della zia, e la madre aveva raccontato della moglie del funzionario che aveva avuto compassione di loro, Joo aveva realizzato quanto fossero andate vicine a non rivedersi mai più. Ma ora era tutto finito, erano in salvo, e il nuovo paese si sarebbe preso cura di loro. Dopo tanta sofferenza, dopo tante privazioni, era arrivato finalmente il momento di fermarsi ad immaginare quello che sarebbe successo dopo.