Com’ero un tempo.
Come si può facilmente evincere dalla foto scattata negli anni sessanta, la mia mole rocciosa era ancora intatta e felice, ad una altezza di 1283 metri a meridione del monte Altissimo, per la gioia, soprattutto, degli amanti della montagna e di tutti gli esseri viventi a cui sta a cuore l’integrità della natura. Dalla mia cima si godeva di una vista incredibile, che andava dall’arco alpino al mar Mediterraneo, con le sua molte isole e la Corsica in primo piano. E che dire dell’area salubre che invadeva in modo benefico i nostri sempre meno protetti polmoni? Una montagna senza le sue vette è come un mare senza le sue onde, o un albero senza rami. La mia decadenza cominciò all’inizio dell’Ottocento, quando il generale Jean Baptiste Henraux di Sedan, al seguito dell’esercito napoleonico, costituì una società con Marco Borrini di Seravezza per lo sfruttamento delle cave del monte Altissimo. In poco tempo furono assunti circa 1600 lavoratori con l’apertura di un centinaio di cave. Questo fatto dette un notevole impulso urbanistico ed economico a tutto il comprensorio di Forte dei Marmi ed una notorietà fino ad allora inaspettata, basti pensare che con il mio marmo si è abbellito il Duomo di Firenze, la Moschea di Medina, l’Abbazia di Montecassino, la cattedrale di Sant’Isacco a San Pietroburgo. Ma fu anche foriero di gravi e imponenti devastazioni del territorio, dovute, non tanto all’escavazione del marmo, ma all’uso sfrenato e quasi senza regole con cui questa procedette da allora fino ai giorni nostri.
Come sono attualmente
Lo sfruttamento delle cave Cervaiole, che si trovano ad una altezza di 1200 metri, è all’origine dei miei guai fin dal 1830 quando, per cavare il marmo bianco di ottima qualità conosciuto anche col nome di Arabescato, si procedette al taglio della mia cima abbassandola di cinquanta metri. Il marmo estratto fu esportato in tutto il mondo, ma tutti sanno che le montagne non ricrescono e le regole impongono il rispetto dei rilievi: ma chi rispetti cosa? E più ancora, coloro che sono addetti al controllo e che ricevono un lauto compenso per questo, dove sono, come mai non vedono? Mi sono sempre chiesto da dove deriva il mio nome, ma non ho mai trovato riscontri, allora ho provato a scinderlo in due “Falco e Ovaia” che, se non erro, significa “luogo dove i falchi depongono le uova”. Questo mi piace molto, ma, allo stesso tempo, mi provoca alcuni sussulti: essendo privati dalle prepotenze umane del luogo ritenuto da loro più adatto alla conservazione della specie, i falchi delle Apuane dove avranno trovato uno spazio sicuro e idoneo alla loro fecondità e, soprattutto, lontano dai predatori a due gambe? Scusate se vi ho raccontato una storia senza lieto fine, ma ho ritenuto necessario farlo per mettere tutti al corrente della protervia di coloro che hanno il potere di fare ciò che vogliono.
Vi abbraccio con quel poco che mi resta, ma che spero non mi sia ulteriormente tolto.
Vostro Picco Falcovaia.