
C’è un lato dell’Egitto che non è noto. E non ha niente a che vedere con tutto quello a cui siamo abituati a pensare, quando si parla del grande paese nordafricano, e cioè le meravigliose vestigia egizie e le acque cristalline di Sharm el Sheikh.
Il signor Abdo sta ancora aspettando di rivedere suo figlio. Gaafar è stato arrestato nel 2018 e da quel giorno è semplicemente sparito. Il padre, ottantaduenne, ha fatto la spola tra Il Cairo ed Assuan – che sono la bellezza di 15 ore di treno – più e più volte, ma ha sempre rimbalzato sul muro di gomma delle autorità giudiziarie egiziane. Poi si è rivolto ad alcuni avvocati, che però si sono approfittati della disperazione di Abdo, chiedendogli 640 dollari per la liberazione del figlio, che secondo loro era in carcere al Cairo con l’accusa di “adesione ad un’organizzazione terroristica”. Lui ha pagato ed tornato nella capitale, ma di Gaafar nessuna traccia. Allora è andato alla prigione di Tora, chiedendo a tutti gli agenti di ogni padiglione di controllare se suo figlio comparisse negli elenchi dei detenuti, ma invano. Non sapendo cos’altro fare, Abdo è tornato a casa. Ad accompagnarlo: la solitudine e l’angoscia delle domande senza risposta. Perché il figlio è finito nell’enorme buco nero del sistema della carcerazione preventiva egiziano? Quando questo succede, ci si deve sentire molto fortunati se, prima o poi, si riesce ad uscirne vivi, sebbene a costo di indicibili sofferenze e privazioni. Sono decine di migliaia, infatti, le persone che hanno subito lo stesso stresso trattamento del figlio di Abdo, umile commerciante di pesce in salamoia. L’unica differenza è che loro non sono spariti nel nulla.
Ho parlato di sistema con cognizione. Perché, in Egitto, l’istituto della custodia cautelare è stato spogliato completamente della sua funzione originaria, e trasformato in pena detentiva vera e propria, un diabolico e feroce strumento di repressione della libertà di pensiero, di associazione e persino di movimento, ammantato di legalità. L’idea è semplice: privare di qualunque diritto chi viene accusato e messo agli arresti in regime di fermo cautelare. Perché in Egitto, ormai, quasi ogni motivo è sufficiente per venir etichettati come nemici dello stato, e in quasi tutti i casi in cui ciò avviene, si finisce in prigione in modalità preventiva. Due donne, ad esempio, sono state arrestate per essersi lamentate dell’aumento dei biglietti della metropolitana; un politico per aver espresso l’intenzione di candidarsi alle prossime elezioni contro il presidente in carica; un dottorando della Washington University – scarcerato dopo ben otto mesi – per le sue ricerche sulla magistratura egiziana. La stragrande maggioranza di chi finisce in custodia cautelare è accusato di adesione a gruppi terroristici, il più delle volte senza nessuna plausibile ragione, ma ciò è sufficiente per piombare in un limbo giudiziario costruito ad arte per trattenere più tempo possibile i detenuti senza obblighi di presentare accuse e prove formali.
La disposizione cautelare iniziale dura due settimane, che possono essere rinnovate dal giudice – e lo sono quasi sempre – fino ad un massimo di dieci proroghe, sempre senza alcun obbligo da parte dell’accusa. Dopo cinque, lunghi mesi il detenuto ottiene un’udienza, che definire farsa è un eufemismo. Essa dovrebbe essere il momento in cui l’accusato, o chi per lui, può contestare la reclusione, ma di avvocati difensori se ne vedono pochi in questo tipo di udienze. Quest’ultime, oltretutto, durano lo spazio di una sosta al bagno, si svolgono a porte chiuse, e i detenuti compaiono davanti al giudice chiusi in gabbie di vetro insonorizzate. Il giudice, ad un certo punto, spinge un bottone e si apre l’interfono, ma il vocio non permette a chi viene chiamato dal giudice di sentire il proprio nome, e l’opportunità di difendersi svanisce. Il giudice, a questo punto, ha la facoltà di prolungare la detenzione cautelativa con periodi 45 giorni, rinnovabili fino ad un massimo di due anni, alla fine dei quali il detenuto deve essere rimesso in libertà. Ma il sistema concede all’accusa la possibilità di aprire una nuova inchiesta, e quindi il periodo di due anni può ricominciare daccapo. A questa sorta di insulto al concetto di giustizia, si deve aggiungere il fatto che le carceri egiziane non godono della migliore reputazione possibile. Sovraffollamento, condizioni igieniche spaventose, impossibilità di ricevere visite, assenza di assistenza medica, scarsità di cibo, determinano ogni anno la morte di centinaia di persone rinchiuse in misura di custodia cautelare, quindi senza aver avuto neanche un processo vero. Le fonti governative sostengono che il sistema è stato strutturato così perché le procure sono intasate dai molti arresti. Peccato che questa crescita esponenziale di fermi sia dovuta, quasi esclusivamente, alla crociata contro il dissenso messa in atto dal governo stesso, nella figura del presidente Al Sisi. Negli anni, egli ha esteso a dismisura la sfera semantica del concetto di “nemico” o “pericolo” per lo stato e per l’ordine interno, includendo oggi anche dei semplici ed innocui atti di dissenso, come un commento di critica sul governo o una caricatura del presidente sui social; persino camminare nei pressi dei luoghi della rivoluzione del 2011, nei giorni in cui cade l’anniversario, può essere un’attività passibile di arresto, soprattutto in caso di uso del cellulare per un selfie o una foto ricordo. Arrivato al potere nel 2013, a seguito della destituzione del primo presidente democraticamente eletto Mohamed Morsi, dei Fratelli Musulmani, che aveva vinto le elezioni un anno prima, Al Sisi ha subito improntato la sua politica interna al raggiungimento della stabilità politica e sociale attraverso una capillare attività di repressione ed eliminazione del dissenso. Prima si è concentrato sui Fratelli Musulmani, il partito di Morsi, accusando il movimento di essere dietro agli attacchi armati che, periodicamente, hanno tormentato il paese in quegli anni. Poi si è dedicato ai professionisti del dissenso: giornalisti, intellettuali, professori, attivisti, e oppositori politici. Finiti questi due importanti bacini d’utenza, l’attenzione si è rivolta ai cittadini comuni. Le persone vengono tratte in arresto di notte, a casa loro, oppure per strada, o al lavoro, senza poter fare una telefonata per avvertire parenti, amici o avvocati di quello che sta accadendo loro, esattamente la stessa sorte toccata a Gaafar. L’aumento degli arresti e un uso a dir poco distopico del fermo cautelativo, è andato di pari passo con la costruzione di nuove carceri. Si calcola che, dal 2011, ne siano stata aperte sessanta: una quantità considerevole persino per un paese grande come l’Egitto.
Nonostante qualche apertura possibilista nei riguardi dell’opposizione politica, e un tentativo di maquillage nei confronti della comunità internazionale in fatto di diritti umani, con il rilascio di qualche centinaio di oppositori, quello egiziano resta un regime autoritario dove, in nome della stabilità, un numero imprecisato di persone finisce in carcere ogni giorno, per uscirne con la vita distrutta, nel migliore dei casi, oppure non uscirne più, in quello peggiore.
Quindi, se avete programmato le vacanze estive a Sharm el Sheikh, l’anno prossimo, pensateci un secondo e cambiate destinazione, siete ancora in tempo a dare i vostri soldi a governi più meritevoli.
Fonti: The New York Times, Stati Uniti (tradotto e pubblicato in Italia da Internazionale) – Wikipedia