• Mar. Apr 30th, 2024

Diari Toscani

Giornale di cultura, viaggi, enogastronomia e società

OLTRE|FRONTIERA

Destinazione: Ventanilla, Perù

Coordinate: 11°51′20″S 77°04′25″O

Distanza da Firenze: 10.783 Km

Tra il 14 e 15 gennaio del 2022, nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico, il vulcano sottomarino Hunga Tonga esplode. L’eruzione è catastrofica: ad oggi, la più potente di questo giovane secolo, e fra le più potenti di sempre. La forza delle onde anomale che vengono generate d’esplosione, devasta gli arcipelaghi circostanti e, pur affievolita dal lungo viaggio attraverso l’oceano, arriva in fretta a lambire le coste continentali, distruggendo o danneggiando gravemente una cinquantina di imbarcazioni in Giappone e in Perù, a più di 10mila chilometri di distanza. Ed è proprio nelle acque costiere del paese sudamericano, che si consuma il danno collaterale più grave, una sorta di estensione del famoso “effetto farfalla”, per il quale un battito d’ali di una farfalla può provocare un uragano dall’altra parte del mondo.

Il 15 gennaio, al largo di Ventanilla, la Mare Doricum – una petroliera battente bandiera italiana – sta effettuando le normali operazioni di scarico di greggio destinato alla raffineria La Pampilla, la più grande del Perù, di proprietà della spagnola Repsol. A causa dell’allarme tsunami in corso, un elementare mix di buon senso e rispetto delle procedure di sicurezza, consiglierebbe di sospendere le operazioni di scarico, in attesa che l’allarme rientri. Ma ciò non accade. Accade invece che l’arrivo delle onde anomale costringano la nave ad una manovra repentina, causando la fuoriuscita di circa 1milione e 920mila litri di petrolio. La marea nera arriva velocemente a riva, provocando l’ennesimo disastro ecologico di questo tipo. L’area interessata, che è anche una riserva naturale, è enorme, e qualunque forma di vita al suo interno, animale o vegetale, viene distrutta. Il danno è incalcolabile. Il governo peruviano ritiene la Repsol responsabile dell’accaduto (successivamente quest’ultima intenterà causa contro l’armatore italiano proprietario della Mare Doricum, per negligenza) e la obbliga a bonificare la zona. La Repsol non ingaggia alcun azienda specializzata, né personale qualificato, bensì si limita ad affidare l’incarico ad otto aziende locali.  Basta presentarsi presso la spiaggia di Cavero, una delle zone più colpite, per avere il lavoro. A chi è interessato viene offerto un contratto di un mese prolungabile con assicurazione sulla vita, un salario di 18 euro al giorno, i festivi pagati il doppio, e turni di 9 ore con qualche breve pausa per riposarsi e bere. Hanno tutti quanti un disperato bisogno di lavorare, e finisce che nessuno osserva nemmeno mezza giornata di riposo.

Come anime peccatrici flagellate da una penitenza dantesca, gli uomini s’immergono nell’acqua nera e limacciosa fino alla vita: con dei secchi prelevano il petrolio dal mare, lo versano in barili, e trasportano questi ultimi su di un’altura, attraverso un arcaico sistema di corde, di incaica memoria. La misera dotazione personale – tuta bianca, guantoni e stivali di gomma, mascherine FFP2 – e alcuni elementari sistemi di sicurezza, non oppongono che una rudimentale resistenza all’ambiente nocivo in cui i lavoratori devono operare: l’aria, intrisa dei miasmi rilasciati dalla miscela di idrocarburi riscaldati dal sole cocente, brucia le narici, mentre il petrolio penetra facilmente sotto le tute leggere, impregnando i vestiti ed entrando a diretto contatto con la pelle. Più che un’assicurazione sulla vita, che si attiva solo con la morte del sottoscrivente, i lavoratori dovrebbero averne una sanitaria, visto che svenimenti, malori e ricoveri sono all’ordine del giorno, giù alla spiaggia nera. Ma non c’è niente di simile nel contratto: ogni assenza per motivi medici non è retribuita e gli operai perdono soldi.

Il contatto più o meno diretto con agenti tossici di questo tipo, inoltre, può provocare l’insorgenza di disturbi e patologie anche dopo molti mesi dalla fine dell’esposizione; la probabilità che ciò accada è assai elevata, viste le condizioni di lavoro, ma, anche in questo caso, niente tutelerà la salute dei lavoratori coinvolti nelle operazioni di bonifica.

In questo desolante quadro di sfruttamento, poi, s’inserisce la paradossale situazione dei pescatori della zona colpita. Ci vorranno anni prima che il mare torni ad essere pescoso. Nel frattempo, magnanimamente, la Repsol ha offerto ai pescatori la possibilità di partecipare alle operazioni di bonifica con un contratto ad hoc, e destinato loro una serie di imprecisati aiuti alimentari: dunque, non solo depredati del principale mezzo di sostentamento, ma costretti, per mere esigenze di sopravvivenza, a ripulire le zone contaminate, in condizioni quasi disumane.

La Repsol ha cercato in tutti i modi di dimostrare l’impegno profuso nella gestione del disastro e nella bontà delle iniziative prese per farvi fronte in tempi rapidi, ma la realtà è che ha sfruttato la situazione economica del Perù per cercare di minimizzare al massimo i costi. Sul suo operato opportunistico e ampiamente deficitario è stata aperta un’inchiesta da parte del governo peruviano, che è culminata in una richiesta di danni del valore di qualche decina di miliardi di dollari; e anche se il recente subbuglio politico in cui è precipitato il paese dopo l’arresto del presidente in carica, rallenterà forzatamente le cose, la palla è in gioco, e il pagamento non potrà essere evitato. D’altronde, la richiesta è il suggello quasi naturale di quanto successo dal 15 gennaio ad oggi. Durante questi 13 mesi, infatti, alla Repsol sono state elevate almeno cinque multe amministrative – il cui risibile ammontare di circa mezzo milione di dollari è stato pagato subito, ovviamente – a causa di alcune manchevolezze nel rispetto dei protocolli che definiscono la piena attuazione di un’operazione di bonifica, dovuta a disastro ambientale. Fra queste manchevolezze, ne spicca una per creatività, che definisce al meglio fino a che punto si può spingere la mancanza di ritegno di una multinazionale, quando deve affrontare le proprie responsabilità. Durante l’ennesima ispezione sul sito di bonifica, i funzionari governativi si sono accorti che la sabbia inquinata, invece di essere rimossa, veniva mischiata in percentuali minori insieme a quella ancora intatta, e poi ridistribuita sulla spiaggia. Una soluzione geniale, a suo modo. Il governo peruviano, naturalmente, ha intimato che tale procedura venisse interrotta immediatamente.

Peccato, però: pare che i castelli fatti con sabbia mista a petrolio, durino più a lungo.

Fonte: Internazionale, Wikipedia