“Sono, a detta di tanti, un discreto pittore. Bontà loro perché io vedo tutti migliori di me!”. Ho avuto occasione di incontrare Renato Fuccini 40 anni fa a Firenze, la città in cui è nato e ha vissuto. In seguito, circa 30 anni fa, si è trasferito a Canazei e i ritorni nella città gigliata sono stati sporadici. Nonostante la lontananza, lo spirito e il sarcasmo fiorentino non si sono affievoliti, così come l’accento e le H, che spodestano spudoratamente le C, sono tenacemente attaccate alle sue parole.
La sua vena artistica si palesa fin da quando è bambino: “Bastava mi mettessero in mano un lapis e una risma di fogli di carta e stavo lì bono tutto il giorno”. Devo essere sincera, non sono arrivata del tutto impreparata all’incontro con Renato: ho riaperto il suo libro, l’autobiografia, ed è proprio dal titolo “Una vita a colori” che prendo spunto per chiedergli se il colore nella famiglia lo abbiano nei cromosomi. Conferma: “La cugina dì mi’babbo era la modella di Giovanni March, e forse anche l’amante. ma questo un vole dire niente, era una brava acquerellista, i’ nonno cuoco era anche un bravo pittore, i’ babbo un bravo acquerellista e caricaturista”.
Renato, grazie a quel colore che gli scorre nelle vene, si iscrive all’Istituto d’Arte di Porta Romana, ma non lo termina: “Facevo sempre forca!”(marinava la scuola). E, anche se era riuscito a farla franca per un lungo periodo, arrivò il giorno in cui il babbo andò a scuola per parlare con i professori che, stupiti, gli chiesero perché fosse andato a chiedere del figlio visto che non frequentava da oltre quattro mesi, tanto che loro pensavano che lo avessero ritirato. Quello stesso giorno Renato, dopo aver passato la mattinata a giocare a calcio al Galluzzo, tornò a casa facendo finta di essere andato a scuola: “Il mio fondoschiena assaggiò ripetutamente la cinghia dei pantaloni del babbo e non riuscii a sedermi per una settimana!”. Così finì la sua carriera di studente-forcaiolo e iniziò quella di lavoratore. Sui primi due impieghi facciamo un accenno veloce, sul terzo ci soffermiamo, mentre Renato ha le lacrime agli occhi dal gran ridere. Ed è su questo aneddoto che capisco il perché del suo soprannome: “disgrazia”. “Ero una vera calamità! Ne combinavo di nere: partivo armato di buone intenzioni, ma combinavo sempre disastri. Devo avere un karma particolare che mi frega. Qualche spiritello che fa i dispetti”.
Il terzo impiego di Renato è commesso in un negozio di moda nel centro di Firenze. La robustezza e l’altezza lo fanno sembrare più grande dei suoi sedici anni e lo spiritello dispettoso, a sua insaputa, lo affianca. Un giorno si reca in magazzino dove è stato allestito, con delle tende, un camerino di prova, in attesa che quello definitivo venga ristrutturato. Renato è accoccolato dietro a degli scatoloni, cerca un articolo, mentre una cliente entra nel camerino, si denuda per provare della biancheria intima. L’uno non vede l’altra. Renato con la sua mole si alza, appare dal niente, rimane con la bazza ciondoloni: è la prima volta che vede una donna nuda. La signora urla, tenta di coprirsi con le mani, Renato le si avvicina per porgerle la propria camicia, la signora si impaurisce, non ha capito le galanti intenzioni del giovane uomo, prende una tenda, tenta di avvolgersi, si muove maldestramente, e qui si affaccia lo zampino dello spiritello: la tenda si strappa e lei finisce in negozio, pressoché nuda. Di lì a poco ha fine anche la carriera di commesso, e Renato torna all’Istituto d’Arte, nuovamente come studente, per frequentare un corso indetto dalla Camera di Commercio, e, nuovamente, riprende a studiare nel laboratorio di ceramica.
Finisce il corso, anche se la voglia di studiare scarseggia, ma gli piace creare, dipingere. “Nella vita ho sempre cercato di fare icché volevo, ho fatto il ceramista, ho modellato, dipinto su stoffa. Ho avuto anche delle possibilità di avere grandi insegnanti, ma io era strafottente e mandavo tutti al diavolo”.
Poi, però, mi parla del ceramista Bartolomeo Giangrasso, che conosceva bene l’impressionismo, e che considera un suo grande maestro: “Corresse il mio impressionismo. Erano bischerate, ma, correggendole, mi si aprì un mondo”.
Sono preparatissima, ho letto il suo libro, e gli chiedo perché si definisce un fan di Monet. Oggi, Renato fa il figurativo moderno, ma all’epoca si sentiva simile a Monet per carattere e, seppure più blando rispetto a lui, anche per segno iniziale. Mi risponde ed ecco che esce l’anima fiorentina: “Però lui aveva la barca, io una 850 e qualche volta ci dormivo… e siccome s’andava insieme ad altri pittori s’era una squadra… e si pigliava delle briache ( sbornie) tremende”. Il giorno in cui Giangrasso gli disse che, ormai, lo aveva superato in tecnica, lo indirizzò a un altro maestro, del quale Renato preferisce non dire il nome. Con lui apprese la tecnica della pittura fiamminga ad olio e, pur avendo risentito molto del suo modo di dipingere, decise di seguire comunque la propria tendenza. “Dopo aver appreso una cosa nuova, appena raggiunta passavo ad altro. Ho sempre desiderato che i miei lavori fossero degni di essere tali, non mi importava il riscontro economico. Spesso davo le opere in beneficenza o cedevo alcuni pezzi per pagare dei lavori che mi venivano fatti”. E dato che di pittura non riusciva vivere, Renato accettò un lavoro che con l’arte aveva poco a che fare: “Facevo il postino con amicizie altolocate”.
L’amore per la pittura è potente e continua a dipingere, entra a far parte della Galleria Moro in via del Moro, a Firenze, in cui esponevano nomi importanti. Viene presentato da Pierluigi Lunardi e i suoi pezzi piacciono e, anche se ne vende solo uno, è l’occasione per conoscere pittori in auge. Da quel momento fa molte mostre collettive.
Gli chiedo cosa significhi per un artista essere pittore di una galleria: “Dà prestigio, se la Galleria l’è bona. Ti tengono sempre esposto e se ci sono mostre interessanti sei presente. A quei tempi s’aveva tutti una fame diabolica e bisognava ingegnarsi per mettere insieme il pranzo con la cena. Se entri sotto un mercante, ma di quelli bravi veramente, i primi 10 anni è dura, ma dopo il nome viaggia, fai mostre importanti e arrivano i soldi. Anche la critica è importante, ci vole gente conosciuta”.
Mi butto sull’intimistico, chiedendogli quale sia il suo rapporto con la tela: “Adopero solo cartoni telati: le tele si forano, il cartone telato no, ci vole una bomba a mano”. Riformulo la domanda sul rapporto con il cartone telato: “Mi sento pizzicare le mani, mi metto lì piano piano e poi parto. Tiro un rigo, due, da quei fregacci capisco cosa verrà fuori”.
Mi dice che la base è la tavolozza dei pittori francesi, sul blu: cobalto e Prussia, e che il vero pittore riesce a lavorare con cinque colori, quelli che ti danno una gamma infinita, e che quando faceva il fiammingo prendeva le polveri pure, i pigmenti; mischiati all’olio di lino i colori li faceva da solo. E siccome la tonalità è quella che dà l’equilibrio a tutta l’opera, ci sono volte in cui impiega anche un’intera mattina per far venire fuori quella che cercava. Termina dicendo: “I colori sono cari, ma i miei lavori fra 200 anni saranno come oggi”. I suoi soggetti preferiti sono il nudo, il corpo umano, perché “quando hai tirato una riga, sei già un pezzo avanti”, e poi: “A me le donne le mi piaccian tutte”. L’immagine della donna nel camerino mi si palesa immediatamente e, quando afferma che gli piace il nudo con armonia, me la vedo davanti avvolta in una tenda drappeggiata.
Penso a lui sedicenne, alla sua esuberanza, al suo partire subito come “un treno”, che, talvolta, lo ha penalizzato ma che è stato anche il motore che ha alimentato la sua passione per la pittura. Gli chiedo i suoi progetti per il futuro: “L’è un casino: penso sempre di avere 20 anni, ma il guscio l’è come 300. I progetti sono ciò che mi tengono in vita. Tipo? La ricerca! nell’arte non finisce mai, puoi anche darti la zappa sui piedi e tornare indietro ma ogni volta c’è sempre qualcosa di nuovo”.
E a un giovane che decidesse di vivere di pittura, Renato darebbe questo suggerimento: “Vai a fare il calzolaio! È un mestiere che rende e che serve!”.
Foto per gentile concessione di Renato Fuccini