Come le stagioni scandiscono il ciclo della vita di tutte le specie viventi, allo stesso modo il Festival della canzone italiana di Sanremo è l’evento che regola il nostro bioritmo televisivo. Ma c’è un “prima” e un “dopo” Sanremo, non solo per noi adepti del piccolo schermo. Tenacemente aggrappati alla suddetta dicotomia, i mondi della televisione e della musica italiani sopravvivono aspettando Sanremo, penzolando sul baratro semantico in cui si è trasformata la loro essenza di creatori di contenuti. Sanremo, quindi, incarna una sorta di risveglio post-letargico per chi fa televisione o musica in Italia. Spesso, però, a questa “rinascita” non corrisponde un’altrettanta qualità nei contenuti proposti. Partiamo dall’evento televisivo.

Con lungimirante scelta artistica, il buon vecchio Carlo Conti esfolia le cinque serate di alcuni orpelli introdotti dal suo predecessore, emigrato di lusso presso lidi televisivi alternativi, subito dopo la fine del Sanremo 2024, e conduce lasciando pochissimo spazio all’improvvisazione. A Benigni, che avrà fatto due battute divertenti in tutto il suo intervento, vengono concessi poco più di 15 minuti, come un qualunque comico esordiente di Zelig, lui che in occasione di Sanremo passati era sempre stato celebrato come l’attrazione principale della serata, con minutaggi straordinari a disposizione per i suoi pezzi. A Jovanotti è andata un po’ meglio, come minutaggio, ma anche la sua apparizione è stata meno pomposa del previsto, e tutto sommato poco celebrativa della centralità del personaggio nella storia della musica italiana. E quindi? Meglio o peggio di Amadeus? Di sicuro la scaletta è stata meno piena di intermezzi non canori, e la parte feriale del festival ha chiuso i battenti ad orari più che accettabili – si è arrivati ad un orario da guardia giurata solo in occasione della serata finale, come era doveroso che fosse, in fondo – consentendo a centinaia di migliaia di impiegati di non presentarsi in ufficio in condizioni di catalessi clinica per aver fatto le ore piccole in attesa delle classifiche parziali.

Buona la squadra dei co-conduttori, dalla quale è emersa, come un gigante, la figura della splendida Bianca Balti, con la coraggiosa ostensione del suo corpo ferito (capo calvo e la mastoplastica in bella mostra di sé), latrice della sua condizione di malata, senza tuttavia mai parlarne direttamente, allo scopo dichiarato, e raggiunto, di non indulgere in facili pietismi, bensì di promuovere un messaggio pieno di speranza. I mitici Duran Duran – unici ospiti stranieri – hanno offerto un’esibizione nostalgicamente bella, soprattutto per quelli come me, la cui gioventù ha coinciso con il loro periodo di successo planetario, in coabitazione con gli Spandau Ballet, quando fenomeni di isterismo di massa si manifestavano dovunque si palesassero. L’inutilità dell’apparizione di Victoria sul palco durante il loro intervento, non vale un minuto della vostra attenzione, e quindi eviterò ogni commento al riguardo. Personalmente, invece, avrei fatto cantare di più anche Damiano David, l’ex front man dei defunti Maneskin, trionfatori proprio a Sanremo nel 2021. Finalmente spogliato del suo finto ruolo da rockstar trasgressiva, e non più adombrato dalla bassista Vittoria e dai suoi succinti vestiti di scena, il talento puro di Damiano ci avrebbe permesso di riscoprire qualche altra canzone del compianto Lucio Dalla, invece che limitarsi alla sola, pur meravigliosa, struggente e definitiva “Felicità”. È stato un piccolo, grande momento musicale. Se non è stato l’unico, sicuramente è stato il migliore, e dovremo farcelo bastare perché il resto, e parlo delle canzoni in gara, ci ha lasciato ben poco. Molti dei 29 brani inediti che abbiamo ascoltato, presentano un qualche tipo di plagio. Qualche esempio. Linea melodica – e relativa scansione ritmica – della seconda parte del ritornello della canzone di Olly, il vincitore di questa edizione di Sanremo, sono un plagio evidente de “Il filo rosso” di Alfa, la versione ligure di Ed Sheeran, che a sua volta aveva plagiato “Run” degli One Repubblic, nel suo pezzo presentato proprio a Sanremo l’anno scorso. E che dire di Achille Lauro, pseudomino di Lauro de Marinis? Il 34enne romano è andato ad attingere a piene mani dalla struttura armonica e ritmica dell’immortale “Notte prima degli esami” di Venditti, aggiungendo anche una spruzzatina del brano “Tango” del giovane cantautore Tananai – sembra il nome di un archistar giapponese, ma è lo pseudonimo di Alberto Cotta Ramusino – che lo presentò nel 2023, sempre a Sanremo, e che parlava di quanto era bello innamorarsi in mezzo alle macerie di un bombardamento. Ancor più clamoroso, però, è il plagio del brano “Thrift shop” del duo Macklemore & Ryan Lewis del 2012, inserito senza ritegno dal team Shablo, Gué Pequeno, Joshua ft. Tormento nel loro brano dal titolo evangelico-catechistico “La mia parola”. Nel brano secondo classificato “Volevo essere un duro” riecheggia “Meravigliosa creatura” della Nannini e il mondo di Renato Zero, mentre “L’albero delle Noci” non plagia niente di specifico, se non l’architettura musicale e canora di Francesco de Gregori nella sua interezza, il che non è comunque un reato. In un certo senso questo Sanremo è stata la rivincita del cantautorato nostrano. Persino Toni F. – notevole la sua presenza scenica – che ha fatto del trap volgare il suo marchio di fabbrica, ha presentato una semplice ma piacevolissima canzone a ritmo di beguine, che meritava miglior fortuna. La vincitrice morale di questa 75esima edizione del Festival di Sanremo è e resterà, indiscutibilmente, la splendida Serena Brancale, che ha presentato un brano fatto di tanto ritmo e melodia, nuovo nella sua meridionalità, calcando il palco di Sanremo come una veterana, e non scadendo mai nella volgarità pur mostrando molto del suo corpo scolpito. La canzone ci avrebbe rappresentato degnamente all’Eurofestival, dove ballabilità e capacità scenica vengono premiate più di qualunque altra caratteristica del brano e dell’artista che lo presenta. Anche “Viva la vita” di Francesco Gabbani avrebbe meritato di finire un poco più in alto in classifica, a nostro modesto parere. Il sodalizio con il cantautore Tricarico aveva prodotto quest’anno una ballad R&B incentrata su un ritornello ben costruito in ampiezza e spessore, grazie al passaggio da una tonalità maggiore ad una minore. Probabilmente è stata punita l’assenza di profondità della strofa, che dice assai poco e serve solo per arrivare al climax del ritornello.

Tutti gli altri, nel migliore dei casi, hanno proposto versioni peggiori dei brani presentati in passato, e in alcuni casi addirittura durante la scorsa edizione di Sanremo: Elodie, Clara, i Kolors e anche Rose Villain – che ha depauperato tutto il credito che si era guadagnata l’anno scorso con il suo sexy “brum-brum”, sostituendolo con un risibile gesto felino – sono l’esempio più eclatante di questa deriva auto plagiante degli artisti in gara quest’anno.
Un Sanremo su cui aleggiava il fantasma di Amadeus, con il suo fardello di record auditel, poteva rappresentare una trappola mortale per Carlo Conti, che invece di cercare di superare il glorioso predecessore, ha messo su un Sanremo solido e senza sorprese: a parte la mancanza di originalità, manifesta anche dalla presenza ripetuta di alcuni autori che hanno scritto e prodotto più di una canzone in gara, pochissime sono state le canzoni inascoltabili e molte quelle con un futuro radiofonico luminoso davanti a sè.
La canzone più bella, la sigla, non era in gara, ma sarà il vitalizio di Gabri Ponte