Sold out al teatro Animosi nella serata di domenica 24 novembre per lo spettacolo “Vorrei una voce” di, e con, Tindaro Granata e il fatto che l’ingresso fosse gratuito, perché l’evento è stato offerto dalla sezione di Massa Carrara di Fidapa in occasione della Giornata contro la violenza sulle donne, non deve fuorviare: la serata fredda e piovigginosa non invitava certo ad uscire, neppure per un autore e attore di solida fama e indiscusse capacità come Tindaro Granata, la cui bravura è stata, quindi, sicuramente l’elemento di richiamo più grande. “Vorrei una voce” è lo spettacolo scritto, diretto e interpretato dall’attore siciliano che è tratto dal progetto “Teatro per sognare” che lui ha portato avanti, per quattro anni, all’interno del carcere di Messina, insieme alle detenute di alta sicurezza, cioè quelle condannate per reati connessi con la mafia. Uno spettacolo che alterna picchi continui di emozioni e tocca più corde nell’animo degli spettatori, offrendo continuamente una gamma di diversi piani di lettura. La voce – colonna sonora- dello spettacolo è la “voce” per eccellenza: quella di Mina, nelle sue canzoni più amare, sensuali, potenti come “Ancora, ancora”, “Io non ti conosco”, “L’importante è finire”, tra le altre, cantate in un playback perfetto di Tindaro Granata, che ricostruisce mosse ed espressioni della cantante mito della musica italiana. Ma la “voce” è anche, soprattutto, quella delle detenute che Tindaro ha coinvolto nel progetto di uno spettacolo ispirato all’ultimo concerto di Mina, quello tenuto a Bussoladomani, a Forte dei marmi, nell’agosto del 1978, prima che a cantante si ritirasse definitivamente dalle performance dal vivo. In scena solo lui, Tindaro, ma anche questo potrebbe risultare fuorviante: alla fine dello spettacolo si ha la netta sensazione di avere visto e ascoltato i sette personaggi che escono letteralmente dalla costola dell’attore. Personaggi forti, perfettamente tratteggiati, riconoscibili anche senza il cambio, in scena, di luccicanti capi di vestiario che segna, nella narrazione, il passaggio da una storia all’altra. Personaggi duri, difficilissimi e disarmanti, così profondamente segnati dalla vita, anche per loro stessa scelta, che non possono non arrivare direttamente al cuore degli spettatori. Personaggi che sono persone vere, storie reali e drammatiche, se non tragiche, con tutte le contraddizioni e il dolore di vite che appaiono forgiate dal destino, anche quando quel destino è stato creato con le loro stesse mani. E l’attore si sdoppia, si triplica, si riproduce come per osmosi, cambiando appena l’accento, siciliano, calabrese, cambiando profondamente l’anima del personaggio rappresentato e sparisce dalla scena per lasciare il posto ad Assunta, Rita, Jessica, Sonia, tutte con un tratto distintivo comune, la condizione di madri devastate, private dei loro figli, ingannate dai loro amori. Tindaro ricompare a tratti, voce narrante che racconta il suo personale percorso, la sua passione per Mina, l’esperienza, per lui vivificante e salvifica, del progetto di teatro in carcere. Appalusi lunghi e meritatissimi.
Lo spettacolo è stato introdotto da Alessandra Battistini, presidente della sezione Massa Carrara di Fidapa, che ha salutato il pubblico insieme al sindaco di Carrara Serena Arrighi. Al termine dello spettacolo si è svolto un dibattito sul tema de “Il ruolo della donna nelle roccaforti della mafia” che ha avuto come ospiti Alessandra Camassa, presidente del tribunale di Trapani, una vita intera nella magistratura dedicata a combattere la mafia, iniziando a fianco del giudice Paolo Borsellino, intervistata dall’avvocato Beatrice Vannini, coordinatrice del Collegio Garanti di Fidapa e lo stesso Tindaro Granata, intervistato dalla dottoressa Anna Lalli, psicologa e socia Fidapa. “I mafiosi hanno la malattia del patriarcato – ha detto il giudice Camassa – fino a diventarne quasi una caricatura. Oggi, si cominciano a vedere donne, nate e vissute in ambiti mafiosi, che cercano di sottrarre i figli al destino voluto dagli uomini di mafia. Ma per farlo, ancora , l’unico mezzo è fuggire via con i figli”. “Una delle cose che più mi ha colpito delle donne con cui ho lavorato in carcere – ha detto- Tindaro Granata – è stato il senso di libertà che dava loro venire in teatro per provare e per fare lo spettacolo. Tutte apprezzavano il non vedere, almeno lì, le sbarre della prigione e forse anche del loro destino”.