Lunedì scorso Lapo, il mio gatto filosofo, mi ha fatto notare che era il 4 di dicembre e, girando per tutta la stanza, mi ha spinto a ricordare l’importanza della data. Dopo averci pensato un po’ su, mi sono reso conto che, nella frenesia di tutti i giorni, mi ero completamente dimenticato di questa ricorrenza. Shame on me, direbbero gli inglesi: che vergogna! E così non ho resistito alla tentazione di scrivere qualcosa al riguardo, uscendo un po’ fuori dagli schemi di questa rubrica, ma nemmeno di tanto. Ditemi, alla fine, se avrò avuto ragione o meno.
Avete mai sentito il termine fricchettone? Appartiene ad un lessico un po’ vetusto, roba da boomers direbbero i ragazzi di oggi. L’aggettivo fricchettone descrive una persona fuori dagli schemi, bizzarra, stramba, contestatrice. La definizione di fricchettone aveva una connotazione un po’ negativa e quasi repulsiva, alla quale si aggiungeva anche un pizzico di presa in giro per alcuni gusti sessuali, che non erano proprio conformi allo standard. Erano gli anni ‘70/’80 e nessuno si scandalizzava più di tanto: alla fine essere fricchettoni voleva dire accettare uno stile di vita che, sotto sotto, spesso era un po’ invidiato, ma guai a dirlo. Il termine deriva dalla parola inglese freak, che significa appunto strambo, spostato e rappresenta una corrente culturale all’apice della cultura hippie, nata a metà degli anni ’60 a Los Angeles e diffusasi dapprima in California e, poi, negli Stati Uniti. I suoi fondatori furono due personaggi molto particolari che meritano di essere conosciuti: Vito Paulekas e Carl Franzoni. I due fecero di quella che allora definirono pazzia collettiva, un metodo di espressione artistica che avrebbe influenzato in maniera incontrovertibile le future generazioni, compresa quella attuale.
Questo stile di vita si ripercosse in tutta una serie di movimenti culturali che investì anche il mondo musicale con artisti come Tim Buckley, padre dell’altrettanto bravissimo e sfortunatissimo Jeff, di cui dovete assolutamente sentire “Song to a siren” o “Morning glory” oppure Don Van Vliet al secolo Captain Beefheart (Capitano Cuore di bue), autore di un album fondamentale come “Trout mask replica” che per essere ascoltato necessita di tanta buona volontà.
Il più famoso di tutti però, e qui veniamo al 4 dicembre, è stato l’immenso Frank Zappa che proprio trent’anni fa, all’età di 53 anni decise di andare ad abitare al “piano di sopra”. Di chiare origini italiane, il padre era originario di Partinico in Sicilia, è stato definito come il più grande musicista del secolo scorso insieme ad Arnold Schönberg, padre della musica dodecafonica. Per definire l’artista basterebbe ricordare come, inizialmente attratto dalle percussioni – diventerà poi un grande chitarrista – dichiarò nella sua autobiografia di essere entrato in un negozio di dischi alla ricerca di un vinile che potesse piacergli. Vide un disco di Edgar Varese, nella copertina del quale il compositore era ritratto con in capelli bianchi e scompigliati e pensò che un disco con l’immagine di uno che sembra uno scienziato pazzo dovesse contenere musica per le sue orecchie. E così fu. Il 4 marzo (ancora quel numero) fu invitato dal conduttore americano Steve Allen al suo “Tonight show” presentandosi come l’autore della colonna sonora del film più brutto del mondo, “The world greatest sinner” di Timothy Carey. Frank Zappa si presentò come polistrumentista, ma Allen gli ricordò che era stato invitato per la sua abilità nel ricavare suoni da una bicicletta. Frank si esibì in un concerto, che lui stesso chiamò “Concerto for two bicycles”, percuotendo i raggi delle ruote e il telaio con un archetto e un paio di bacchette e per rendere la performance più esilarante, decise di farsi accompagnare da un’intera orchestra. «Mi congratulo con te per la tua lungimiranza, e anche per la tua musica: ma non farlo mai più», gli disse scherzosamente Allen alla fine dell’esibizione. Un esperienza degna di programmi come “La corrida” potremmo dire oggi, ma era nata una stella del tutto bizzarra e per lungo tempo incompresa dallo star system musicale. Alla sua morte lasciò qualcosa come un centinaio di album registrati in studio e dal vivo ed una produzione ancor più sterminata e sconosciuta, contenuta in migliaia di nastri conservati in un magazzino di Los Angeles e che viene chiamato “The vault”, la cassaforte i cui diritti sono stati acquistati lo scorso anno dal gruppo Universal dopo una lunga trattativa con la società che li deteneva precedentemente, la Zappa Family Trust, fondata dai figli di Zappa e da sua moglie Gail Sloatman nel 2002. Il suo album d’esordio insieme al gruppo dei Mothers of invention, “Freak Out” è considerato come il primo concept album della storia del rock, cioè il primo album i cui pezzi hanno una certa continuità sonora o narrativa, che ha ispirato generazioni di artisti di fama mondiale, gli stessi Beatles dichiararono di averne subito l’influenza per realizzare “Sgt. Peppers lonley heart club band”. Leggenda, o realtà, chi lo sa, vuole che incontrando casualmente un semisconosciuto Jimi Hendrix, durante la realizzazione della copertina di “We’re only in it for the money”, dove il grande chitarrista è riconoscibile in basso a destra con un boa di struzzo intorno al collo, gli suggerisse l’uso del wah wah per i suoi pezzi. Famosa fu la sua audizione davanti ad una commissione del Senato degli Stati Uniti, richiesta dalla scrittrice e attivista Tipper Gore in rappresentanza dell’associazione genitoriale Parents Music Resource Center (PMRC), per mettere un bollino rosso di censura sui dischi che contenevano testi definiti sconci e irriverenti. “È come voler combattere la forfora tagliandosi la testa” rispose Zappa, rivendicando il diritto di non dover essere sottoposti ad una censura preventiva, lasciando agli utenti finali la possibilità di scegliere chi o cosa ascoltare.
Fu sempre contrario all’uso di qualsiasi tipo di droghe, vietandone anche l’assunzione ai componenti delle sue band. Nel 1991 in aperto contrasto con le politiche dei Repubblicani Ronald Reagan e George H.W. Bush, annunciò la sua candidatura alla presidenza. Si ritirò 8 mesi più tardi, dopo aver scoperto di avere un tumore alla prostata, che ne avrebbe provocato la morte due anni dopo. Coprì con le sue opere ogni genere musicale, dal rock al jazz alla fusion, il progressive, il funky financo la musica classica arrivando a far eseguire alcuni suoi pezzi dalla London Simphony Orchestra, dirigendola lui stesso. Quando un giornalista gli chiese come aveva fatto a raggiungere tale obiettivo rispose seccamente: “Li ho pagati”, sottolineando il fatto di vivere in un periodo in cui se si vuole proporre la propria musica, la propria arte senza il supporto delle grandi case discografiche, bisogna autoprodursi. Poco prima di morire gli fu chiesto come avrebbe voluto essere ricordato e la sua risposta fu: “Non me ne frega nulla!”.
Cose da pazzi è vero, ma parliamo dell’unica pazzia di cui veramente abbiamo bisogno ogni giorno per uscire dalla comfort zone quotidiana ed esplorare gli enormi spazi culturali che ci circondano. Per approfondire la conoscenza del personaggio e farvi anche un sacco di buone risate, Lapo vi consiglia la lettura di due libri: “La mia autobiografia” scritta insieme a Peter Occhiogrosso e “Freak Out, la mia vita con Frank Zappa” di Pauline Butcher.