• Ven. Ott 4th, 2024

Diari Toscani

Giornale di cultura, viaggi, enogastronomia e società

 Questa settimana Gentes  parla di…Kit Vincent, Regno Unito

Ci vuole una certa dose di coraggio a fare la scelta che ha fatto Kit Vincent. Con un tumore che gli stava crescendo in testa e che, secondo i medici, riduceva la sua aspettativa di vita dai quattro agli otto anni, ha deciso di filmare tutto e farne un documentario, dal titolo “Red herring” (Aringa rossa), presentato in diversi festival di settore.

La televisione è satura di gente che si filma, o filma altre persone, in particolari momenti della propria vita che, normalmente, non interessano a nessuno, tranne ai protagonisti, ammesso che siano veri. Sublimare la normalità fino a conferirle un aspetto spettacolare, al di là dei suoi contenuti, è l’idea che ha originato i reality show. La formula, sebbene un po’ logora, funziona ancora, ed è semplice: una telecamera a spalla, un buon montaggio tra interviste e momenti in presa diretta, dei brani di successo nei momenti di climax, e il gioco è fatto. E sulle prime, onestamente, pensavo che non si trattasse di altro, nonostante il tema suggerisse un approccio meno cinico. A farmi cambiare idea è stata la motivazione che lo ha spinto a filmare la sua vita e quella di chi gli sta intorno, per un periodo piuttosto lungo del tempo che gli rimane da vivere: davanti alla prospettiva di morire prima dei suoi trent’anni, Kit si è chiesto che cosa avesse fatto nella vita, e che cosa avrebbe lasciato una volta che tutto fosse finito. Me lo chiedo continuamente anche io, che pure non sono inseguito da questa lugubre incombenza. A parte soddisfare una ego particolarmente sviluppata, quasi certamente è per questo motivo che scrivo canzoni o che, da un anno a questa parte, tengo due rubriche su Diari Toscani. Quindi, con tutte le distinzioni del caso, mi sono sentito molto vicino a Kit e deciso di approfondire la cosa.

Kit ha studiato musica, antropologia e regia. Come tutti i cineasti, vede il mondo attraverso l’obiettivo di una telecamera. Non stupisce granché il fatto che abbia deciso di riprendere uno spaccato della sua vita dominata dal tumore che sta crescendo nella sua testa. Stupisce invece il taglio che è riuscito a dare al suo lavoro. Le recensioni parlano di un’opera che, sebbene contenga molti momenti profondamente commoventi, non indulge in facili sentimentalismi, e che, anzi, è piena di un sorprendente humor nero.

Dai quattro agli otto anni di vita. Una forbice temporale spaventosamente ampia e che impone un approccio diverso alla malattia, per trasformare questo lasso di tempo imponderabilmente disponibile, in qualcosa che abbia un significato, invece che in una lunga agonia. Forse è proprio questa relativa, anche se supposta, disponibilità di tempo a generare l’umorismo che pervade il film. E forse è il film stesso, il fatto di essere ripresi, che ha permesso a chi gli sta intorno di elaborare la cosa, ognuno in modo diverso. La madre, con la quale Kit ha vissuto fino ai 16 anni, è un’infermiera che assiste malati terminali e ha reagito in modo completamente opposto rispetto al marito, riguardo la malattia del figlio, e il fatto che, ogni volta che andava da lei, lui filmasse tutto. Questo l’ha portata ad estraniarsi, secondo Kit, perché non è riuscita a traslare su di lui la capacità di prendersi cura dei suoi pazienti. Il padre, Lawrence, è senza dubbio tra le figure centrali del film, a parte il tumore di Kit, s’intende. Dichiara di essere in analisi, e che quest’ultima lo aiuta a gestire questa sua condizione di padre che perderà il figlio, ma che niente riuscirà a fargliela superare del tutto. Quando il tumore fu diagnosticato per la prima volta, lo shock fu talmente forte che dovettero operarlo d’urgenza al cuore, mentre il figlio e la madre, in una stanza attigua, cercavano di riprendersi dalla terribile notizia. Lawrence è stato investito da un’esuberanza dai tratti molto divertenti, ma che è un chiaro tentativo di esorcizzare e somatizzare il dramma: Kit lo filma dedito al bird watching, al nuoto nell’acqua gelata, al pittura, allo studio dell’ebraismo, fino alla coltivazione della cannabis. Lawrence ha aderito con entusiasmo a farsi riprendere, perché era felice di fare qualcosa che facesse felice il figlio, e lo aiutasse a canalizzare positivamente il dramma. Poi c’è Isobel, la sua compagna, con la quale, necessariamente, vengono intavolate le conversazioni con il contenuto emotivo più alto. Sono filmate integralmente discussioni su argomenti quali il fine vita, il congelamento del seme, oppure su cosa ne pensasse Isobel della possibilità di trovare un altro compagno una volta morto.

In mezzo a questi spaccati di vita quotidiana di una persona condannata, ogni tanto irrompe il racconto della malattia vera e propria. Ed è una narrazione che lascia il segno. Particolarmente ansiogene e drammatiche sono le sequenze in cui viene filmata l’attesa per il responso degli esami strumentali con i quali i medici monitorano l’evoluzione del tumore. A volte sono attese interminabili di ore e ore, che mettono a dura prova la tempra di tutta la famiglia, e che possono concludersi con la gioia o lo sconforto per un pugno di millimetri di recessione o di espansione del tumore.

Kit non ha spento la sua telecamera neanche in occasione delle convulsioni di cui, periodicamente, è soggetto.Nelle foto che lo ritraggono, Kit sembra sereno e in pace con se stesso. Sono certo che il suo progetto di lasciare qualche cosa di prezioso al mondo che gli succederà, non si esaurirà con questo lavoro. Arriva lontano, Kit Vincent da Bournemouth, Regno Unito. Il più lontano possibile.

Fonte: Internazionale