La prima volta che ho incontrato lo chef Francesco Torre, avevo appena assaggiato il suo strepitoso tomino cotto alla piastra, esterno croccante e cuore di formaggio fuso: un sapore che mi aveva talmente ammaliato che avevo voluto conoscere il cuoco di quel circolo di Massa che ero solita frequentare Da ragazza. Dopo quasi trent’anni da allora, il caso ha fatto in modo che lo incontrassi di nuovo, al mare. Di lui sapevo che si era trasferito all’estero, ma non avevo idea che avesse fatto così tanta strada, anche se le sue grandi capacità erano state evidenti sin da subito. Francesco Torre, chef di origine massese, vive in California a Forestville, dove ha aperto il suo ristorante di cucina italiana, Canneti Roadhouse: un luogo bellissimo a cui dedica tutte le sue energie per fare, realmente, la differenza. Una grande prova del fatto che se si vuole veramente raggiungere degli obiettivi, si può farcela: un esempio che infonde coraggio e conforto in tutti quelli che ne vengono a conoscenza. Francesco Torre non si è lasciato abbattere dalle difficoltà, ha affrontato grandi sfide ed è riuscito a realizzare il suo sogno. È riuscito a portare un po’ di Italia oltreoceano, con coraggio e professionalità, dopo essersi molto impegnato nella formazione e nel lavoro. Torre ha partecipato alle Vie del Gusto, è stato invitato a cucinare per la James Beard Foundation, che è uno dei massimi riconoscimenti nel mondo culinario USA, ed è stato riconosciuto dal NY Time come uno dei maggiori chef emergent di Long Island ed ha partecipato a molte trasmissione del settore culinario.
Nato e cresciuto in una piccola cittadina di provincia come Massa Carrara, lontano da tutte le possibilità che regala la grande città, è riuscito a farcela e a crearsi le proprie chance.
Francesco, quando è nata la sua passione per la cucina.
Penso che prima di tutto sia nata la passione per il cibo. Ma potrei fare a me stesso la domanda dell’uovo e della gallina, chiaramente riadattata: è venuta prima la passione per il cibo, o quella per la cucina? Sin da piccolo, invece di giocare con i miei amici per strada, nella frazione della Quercia dove abitavano i miei nonni, passavo il tempo a guardare mia nonna Fina cucinare. In quel periodo i miei genitori erano divorziati e mia madre mi lasciava dai miei nonni nel dopo scuola.
Cos’è che l’ha spinta a intraprendere il percorso per diventare cuoco?
Questo è uno dei miei aneddoti preferiti. Visti gli scarsi risultati ottenuti alla scuola medie, mia madre mi suggerì di frequentare l’Iistituto alberghiero, per poi accedere alla facoltà di economia all’università di Pisa. Al terzo anno di scuola superiore ero veramente deluso della cucina, che si praticava nei ristoranti e negli alberghi della Versilia. Dopo un paio di esperienze professionalmente non proprio gratificanti, mi ritrovai a pensare seriamente di abbandonare il settore della ristorazione. Decisi, quindi, di fare un ultimo periodo estivo di lavoro: la cosiddetta ” stagione”. Mi rivolsi a quello che allora era conosciuto come Max: un bellissimo ristorante sul mare, con un piccolo molo privato, oggi noto come Beach. Avevo sentito dire che il vice preside dell’istituto Alberghiero lo dirigeva ed io ne avevo una gran stima, anche se durante gli anni di scuola mi aveva dato del filo da torcere, soprattutto per i miei continui ritardi. Penso che mi aspettasse di proposito in agguato nell’ombra dell’ingresso. Ma, sotto sotto, lo sapevo che mi riteneva un ottimo studente e che ero uno dei suoi preferiti. Quando entrai nel ristorante e chiesi di lui mi dissero che avevo sbagliato e che i gestori erano di Napoli. Mentre, deluso, stavo per andarmene, venni fermato da una voce femminile che mi propose di lavorare, ugualmente, per loro e io mi offrii per cominciare subito in quel momento. La voce era di Giuseppina Mosca, detta La Pina titolare del ristorante, che mi fece entrare in cucina, dove incontrai Francone, il cuoco, un uomo di quasi due metri che mi mise in soggezione. In seguito, però scoprii che era una persona molto affabile. Lavorai per due sere, sotto l’occhio vigile della Pina che, alla fine mi chiese di lavorare nell’altro locale che avevano a Montignoso e che si chiamava Bottaccio, all’epoca già premiato Relais&Chateaux e stella Michelin.
Quindi aveva fatto una buona impressione…
Evidentemente sì. La Pina era lo chef originario del Bottaccio e lo aveva elevato agli onori culinari in pochissimi anni: era un vero talento. In seguito scoprii che l’avevo già conosciuta, quando, prima che aprisse il Bottaccio, aveva avuto un alimentari con annesso ristorante al secondo piano di un palazzo di Largo Matteotti, Piazza delle Corriere. Ci ero andato a mangiare con mio padre quando avevo cinque o sei anni ed ero impazzito per l’insalata russa, un piatto che ho sempre amato. Comunque, fu stando un po’ di tempo sotto l’ala della Pina che capii che avrei cucinato per tutta la vita.
Ricorda qual è stato il primo piatto che ha preparato?
Al primo anno all’istituto Minuto si imparano tante cose, tra cui la salsa di pomodoro a pezzettoni, cioè non passata. In gergo classico si chiama concasseè. Un compagno di scuola venne a trovarmi a casa di mia madre e la cucinai per pranzo con gli spaghetti. Ma potrebbe anche essere il brodo di dado che cucinai a mio fratello quando era piccolo, che ancor oggi mi prende in giro per il pezzetto di carta argentata del dado che mi dimenticai di togliere.
Lei è cresciuto in una piccola provincia, ma ad un certo punto della sua vita ha deciso di trasferirsi. Può raccontarci com’è stato quel periodo?
Mi trasferii prima nell’entroterra toscano, in provincia di Firenze. Ho lavorato tra Siena e Firenze per oltre dieci anni. Poi incontrai quella che sarebbe diventata mia moglie e decisi di trasferirmi in America. In quel periodo lavoravo a Badia a Coltibuono, rinomata casa vitivinicola che fa risalire le sue origini ai frati Francescani che costruirono la badia nell’anno Mille, e approfondii la mia conoscenza della cucina toscana, in versione classica ed anche moderna. In California ci andai per seguire una ragazza americana conosciuta in Toscana. Grazie ad un contatto locale presi la direzione di Tra Vigne, storico locale di Napa Valley.Non conoscevo né il sistema di lavoro né la lingua per cui dovetti imparare molto, non solo sull’organizzazione e sulle esigenze della clientela Americana, ma anche sulla cultura e sugli usi e consuetudini del vivere sociale. Non ero proprio un campione in tal senso. Quindi il primo periodo fu molto duro.
Che effetto le fece la California?
All’epoca sentivo quel non so che in fondo allo stomaco: l’emozione di trovarmi in un luogo così diverso, con costruzioni grandiose e tutto mi appariva moltiplicato cento volte rispetto al mio piccolo mondo italiano. Dopo un po’ di tempo, scoprii la Bay Area, la zona di San Francisco, che è un posto molto bello con variazioni del paesaggio impressionanti. Oggi, però, non la penso più così ed ho realizzato che la cultura da cui provengo è in realtà radicata a fondo in me e che niente può sostituirla.
Foto per gentile concessione di Francesco Torre