È bastato estrapolare una frase da un discorso tenuto in Spagna da Giorgia Meloni, in cui si parlava di lobby LGBT, per dare il via a una shit storming tesa a negare l’esistenza della suddetta lobby.
In prima fila sulla passerella mediatica, Vanessa Incontrada e Kasia Smutniak, che fanno parte di quel filone attuale di donne – ma anche uomini- che lavorano nel mondo dello spettacolo, attrici passate all’opinionismo di professione, che per acquisire popolarità devono, forzatamente, adattarsi alla società e cercare di catturare il consenso del maggior numero di persone possibili. Oggi sono progressiste, quindi pro LGBT, femministe, animaliste, proimmigrati, filoislamiche, e pro qualunque altra cosa, ieri sarebbero state fasciste e domani saranno dove tirerà il vento.
La comunità LGBT, inspiegabilmente, si rifiuta di ammettere di incarnare, a pieno titolo, le peculiarità di una lobby nonostante le associazioni LGBT italiane siano, ormai, pacificamente politicizzate, tanto che esiste perfino il Partito Gay.
La scure arcobaleno del gender è in agguato, pronta a tagliare le gole di chi si macchia di presunta omofobia e poco importa se si tratti di una battuta o un riferimento innocente. Prima si pretende, giustamente, di normalizzare il concetto di omosessualità, poi ci si lamenta se questa diventa un normale riferimento quale segno distintivo. È così che, in nome del contrasto all’omofobia, si innesca la pressione psicologica opposta, quella che costringe le persone, per timore reverenziale, a sacralizzare la categoria e a cristallizzarla: LGBT vuol dire essere intoccabili, esenti da critiche, opinioni, battute, riferimenti e menzioni. Che nessuno compri Scavolini finché non offre la testa della Cuccarini! È pandemica: aziende, imprenditori, lavoratori e interi marchi sono messi al bando finché non si scusano e ritrattano. Va tutto bene, però, se, per una necessità catartica, gli stessi gay, sui social network, inneggiano alla violenza contro personalità dogmaticamente assunte come omofobe e se, per farlo, utilizzano riferimenti che loro stessi, in altri contesti, riterrebbero discriminatori. Così denigrare chi fa uso eccessivo della chirurgia plastica è offensivo e lesivo della libertà dei trans di esibire le tette al vento ai Gay Pride, ma prendere per il culo chi ricorre al bisturi diventa plausibile se utilizzato come motivo per screditare personaggi politici non graditi.
In tempi di buonismo ecumenico, il vero pericolo è l’aggressività inespressa. A forza di reprimere si rischia l’esplosione efferata e violenta. Infatti, è la politica dei buoni sentimenti che produce, nell’ombra, sette sataniche e integralismi. Per quanto cinico possa sembrare, anche l’AIDS è stato, in passato, per la comunità gay una preziosa occasione per affermarsi come minoranza vittimizzata, meritevole di legittima attenzione. Lo stesso vittimismo che è alla base delle rivendicazioni delle lobby di minoranza, che si pongono come scopo quello di cambiare la società. Oggi, addirittura, la situazione è ulteriormente cambiata, la lobby LGBT è più forte e impone di sdoganare anche il concetto stesso di AIDS, esigendo di elevare pure questo a stile di vita. Qualcosa sta sfuggendo di mano a molte associazioni LGBT, ossessionate dal vedere l’ombra della discriminazione ovunque.
La realtà è che, per fortuna, viviamo in una società che già professa apertamente la sua ostilità al razzismo, al sessismo e alle discriminazioni, ma il grande limite di cui soffre la comunità LGBT è la pretesa di voler trasformare a tutti i costi l’omosessualità in omosessualismo.