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Diari Toscani

Giornale di cultura, viaggi, enogastronomia e società

Intrighi, accordi, rancori e segreti amori: la simbologia del Trittico Ringli

DiPietro Di Pierro

Apr 13, 2021

Dal primo dicembre del 2019 il patrimonio artistico carrarese si è arricchito di un’opera straordinaria che è stata finalmente riportata nella sede originaria nella chiesa di San Pietro ad Avenza, dalla quale mancava da secoli: il Trittico del Maestro di Sant’Ivo, detto Trittico Ringli.

L’opera che ha passato mille rocambolesche vicissitudini, è ricomparsa all’orizzonte dei critici d’arte in terra genovese, verosimilmente in seguito a ripetuti e repentini cambi di padrone avvenuti in terra apuana sin dal XV secolo, e venne censita, a fine ‘800, nella disponibilità della Banca Popolare di Genova che la mise in vendita alla casa d’aste Sangiorgi di Roma nel 1895. Divisa nelle tre tavole che compongono il trittico per ragioni di più agevole commercializzazione, la si rinvenne a Chicago, negli Stati Uniti nella collezione del tedesco-americano Hans R. Theichert originario di Dresda, si era trasferito negli Stati Uniti negli anni 20 del ‘900. Tornato in Germania, dopo la guerra, si era stabilito a Rothenburg in Baviera nel 1956. La prima attribuzione dell’opera al Maestro di Sant’Ivo avvenne nel 1984 mentre il trittico si trovava in Germania e venne fatta da Federico Zeri. Il misterioso Maestro di Sant’Ivo è un pittore anonimo a cui sono state ricondotte una cinquantina di opere tra le quali una raffigurante San’Ivo di Bretagna, patrono degli avvocati, dei pupilli e delle vedove, conservata nel museo dell’Accademia di Firenze, che è quella da cui prende il nome. Alla morte di H.R.Theichert, la moglie vendette il trittico alla collezione della famiglia Sayn-Wittgentein in Germania. Nel 1996, sempre secondo la scheda della Fondazione Zeri, risulta all’asta da Sothby a New York e, infine, lo si ritrova ancora all’asta da Christie’s a Londra nel 2018, dove viene acquistato dal gallerista milanese Matteo Salamon.

E’ Salamon che ne cura il restauro e fa riunire le tre tavole, con l’intervento del CNR e di Loredana Gallo di Firenze. Il restauro evidenzia gli strati originali e in particolare la punzonatura che era uno dei particolari rilevatori della bottega del Maestro di Sant’Ivo. Lo studio ha evidenziato anche leggere forme di ossidazione dovute alla vicinanza del mare. Le ricerche sull’origine del trittico portarono Salomon ad Avenza, nei pressi della chiesa di San Pietro e qui, casualmente a colloquio con lo storico locale Pietro Di Pierro, grazie al quale è stato possibile ricostruire la storia del dipinto, e con il parroco Don Marino Navalesi, che ha subito colto il valore dell’opera per la chiesa di Avenza ed è riuscito a muovere un insperato interesse, promuovendo una raccolta di fondi per “portarla a casa”.

Il Trittico Ringli, è così denominato dal cognome del castellano mandato ad Avenza da Francesco Sforza, allora comandante delle milizie della repubblica fiorentina. Sull’opera vi è una dedica e una data: QVESTA TAVOLA FECE FARE PIERO DI GIOVANI RIN / GLI 1438  – il cognome è spezzato e riportato al rigo superiore.

E’ grazie alle ricerche della storica dell’arte Annamaria Bernacchioni, dell’università di Firenze, che è stato possibile scoprire la notizia della nomina dell’uomo d’arme, in questo avamposto strategico, tra il 1437 e il 1441. “Per munificenza del suo mandato commissiona al Maestro fiorentino detto di Sant’Ivo (dal suo capolavoro), un trittico fondo oro (del tipo “oro di metà”) raffigurante tre santi”.

Il dipinto è strettamente connesso alla via Francigena, presidiata dal “mecenate” mercenario Peter Ringli, principalmente per il riferimento alla “mansio” lunense. Infatti il castellano scelse un suo stemma da mettere al centro della predella, unendo quello di Zurigo, trinciato d’argento e di azzurro, la sua milizia cantonale di provenienza e quello del vescovo di Luni, ma in “inversione guelfa”, cioè con la luna crescente in azzurro su campo d’oro anziché al contrario, come sarebbe al naturale e come riporta un esemplare che è proprio sulla facciata della chiesa di San Pietro di Avenza.

Il legame con la via Francigena si ritrova anche nella trilogia dei santi, il cui nome è scritto sulla predella in caratteri gotici maiuscoli: “SANTVS ANTONIVS ABAS. SANTVS PETRVS APPOSTOLVS. SANTA MARIA MA^DALENA”. San Pietro era ed è il patrono titolare della chiesa di Avenza, Sant’Antonio Abate era titolare dell’ospedale omonimo sempre in Avenza, Santa Maria Maddalena era titolare “dell’ospitaletto” al ponte di Ricortola o di Martin Ferraio). Quindi è la definizione del tratto di strada che la fortezza doveva controllare: due miglia da Avenza al confine genovese e due miglia a levante, che è in territorio massese ma, all’epoca, sempre sotto il controllo fiorentino, per questo può essere definito cifra della via Francigena. Certamente si tratta di santi la cui agiografia è fortemente compenetrata col territorio.

San Pietro è raffigurato in abiti papali con tanto di tiara, oltre che con le chiavi ed è accompagnato da un alone leggendario nelle terre di Luni. Nell’antica città aveva una chiesa a esso dedicata, il cui titolo passò a quella di Avenza e molte altre nella Lunigiana storica. Sant’Antonio Abate, santo taumaturgo raffigurato col libro e con un bastone taumato, è titolare di diversi ospedali la cui fondazione viene fatta risalire agli abati di Sant’Antonio di Vienne nel Delfinato, dove venivano conservate le sue reliquie, oltre a quello di Avenza e di Fivizzano, sulla variante per Reggio attraverso il passo dell’ Ospedalaccio. La tradizione vuole che il maialino, spesso ritratto ai piedi di Sant’Antonio abate, indichi la cura di una fastidiosa forma di herpes , il fuoco di Sant’Antonio, praticata applicandone i grassi sulle piaghe. Santa Maria Maddalena, considerata anch’essa santa taumaturga, la mirofora, raffigurata con il contenitore degli unguenti come attributo, è spesso associata a siti ospitalieri. Inoltre è considerata pellegrina per eccellenza, avendo molto viaggiato dopo la morte e resurrezione di Cristo. La Leggenda Aurea la vuole sbarcata nel sud della Francia ed ivi morta e sepolta, come raffigurato anche da Giotto. Anche Maria Maddalena, come Sant’Antonio Abate, è simbolo del cammino da e per la Francia. Entrambi sono vigili taumaturghi contro le pestilenze che, con ricorrenza decennale, si presentavano proprio sui cammini battuti dalle truppe in lotta per contendersi il bel paese diffondendone il contagio.

La simbologia usata dal fiorentino Maestro di Sant’Ivo potrebbe svelare un racconto in chiave criptica di una pagina della storia d’Italia e d’Europa. E qui inizia la “provocazione”: nel 1438 il pontefice in carica Eugenio IV, già Gabriele Condulmer, veneziano, era afflitto per molte preoccupazioni. Non a caso San Pietro, raffigurato in abiti papali, ha una faccia tra l’indignato e lo sgomento. Eugenio IV aveva dovuto fuggire da Roma e rifugiarsi a Firenze quattro anni prima, per un colpo di mano dei Colonna e, in quel momento risentiva anche della brutta piega presa dal Concilio di Basilea. Il concilio, che doveva perseguire la riunificazione con le chiese d’oriente, fu spostato a Ferrara per essere più raggiungibile dai padri conciliari orientali ma, i prelati rimasti a Basilea, iniziarono una fronda contro il papa, presieduti dal vescovo di Arles Luigi D’Aleman, sospendendolo dalle funzioni per poi opporgli, l’anno successivo, un antipapa: Amedeo VII di Savoia col titolo di Felice V. Anche il re francese Carlo VII, in quell’anno, fece inquietare il pontefice: impose la “prammatica sanzione”, cioè il diritto di nomina reale dei vescovi, detto all’epoca Gallicanesimo. Tuttavia sul Concilio di Basilea mantenne un atteggiamento ambiguo: pur appoggiando il papa si rifece alle risoluzioni di Basilea per enunciare la sua “prammatica sanzione”. Da qui, una possibile spiegazione di questo Sant’Antonio Abate: il maialino, l’attributo che l’iconografia dei santi gli pone ai piedi, più che un maiale è un cinghiale anche perché nel medioevo c’era molta poca differenza tra le due specie e il cinghiale, nella simbologia medievale era sinonimo di demonio. Spesso nell’iconografia medievale Sant’Antonio è rappresentato con un cinghiale, perché rappresenta in modo ambivalente le tentazioni demoniache con cui ha dovuto lottare, quindi verrebbe a rappresentare le tentazioni e i turbamenti da cui la chiesa transalpina era minacciata. Il demonio ammansito dalla forza di carattere del santo. Le reliquie di Sant’Antonio Abate si trovavano in Francia a Vienne nel Delfinato e ad Arles. Ma la simbologia non termina qui. Alcune cronache descrivono Carlo VII, nel momento in cui Giovanna d’Arco cercava di convincerlo alla lotta contro l’Inghilterra, sempre perplesso e con lo sguardo perso nel vuoto. Ebbene questa è l’espressione di Sant’Antonio nel trittico; se può essere tipico di un anacoreta che viveva nel deserto egiziano, con certe premesse, potrebbe anche raffigurare una situazione storica particolare.

L’unico personaggio del trittico con aria radiosa e lo sguardo sorridente è Santa Maria Maddalena che ha quasi l’aria di dire : “Signori! cosa sono queste facce scure, siamo tutti peccatori – e lei ne era il simbolo vivente-, io ho l’unguento che guarirà tutto. Un po’ di buon senso e tutto passerà”. Maria Maddalena viaggiò molto il che la rendeva perfetta come ambasciatrice di pace. Inoltre non è azzardato postulare che la Maddalena possa rappresentare Firenze stessa, che accolse il papa in fuga a Santa Maria Novella e da lì poco lo avrebbe di nuovo accolto insieme al Concilio, a causa di una pestilenza scoppiata a Ferrara, proprio nell’autunno del 1438. Cosimo il Vecchio, infatti, aveva immediatamente invitato il pontefice a spostare il concilio a Firenze. Cosa che avvenne ai primi del 1439 . Quindi Firenze è insula felix, culla di arte, cultura e bella vita, quasi taumaturgica verso gli affanni della chiesa. Anche i colori della santa ricordano la bandiera della repubblica fiorentina, una croce bianca in campo rosso. Le membra infatti sono bianchissime, al contrario di quelle degli altri due santi, sebbene tutti e tre siano mediorientali. I colori usati nel trittico per Maria Maddalena, sono ricorrenti nell’iconografia della santa che, tuttavia, era  quasi sempre raffigurata con aria penitente, almeno fino a quell’epoca, e non con gli occhi sorridenti e quasi radiosi.

Nelle case delle ricche famiglie fiorentine era possibile imbattersi in donne di questo tipo fin dalla fine del XIV secolo. Erano schiave circasse, cioè provenienti dall’attuale Russia caucasica, messe sul mercato dai veneziani, spesso concubine e governanti insieme. L’ultima congettura, quindi, va a frugare nei segreti personali di Cosimo: e si scopre che aveva un’amante di nome Maddalena, l’unica, secondo le cronache di Vespasiano da Bisticci. Era proprio una schiava circassa, comprata a Venezia e  fu la sua compagna durante l’esilio. Cosimo la portò con sé a Firenze al suo ritorno e continuò a vivere sotto lo stesso tetto con lei nella veste di governante nonostante gli avesse dato un figlio che poi lui accolse nella sua corte. Ci sono le premesse per immaginare che la musa ispiratrice per la figura della Maddalena  fosse una Maddalena reale. La Maddalena di Cosimo il Vecchio è descritta come una donna bellissima, alta e bionda, che, per ovvi motivi, doveva vivere in modo defilato malgrado il suo ascendente sul sovrano e questa sarebbe la ragione per la quale non esistono suoi ritratti. In quest’ottica la figura femminile del trittico assume un ulteriore interesse ed apre alla possibilità di un riconoscimento tardivo dell’identità della concubina di Cosimo Il Vecchio. I rimandi alle figure reali che avrebbero ispirato la raffigurazione dei tre personaggi del trittico fanno pensare a una sorta di foto di gruppo dei vip di quell’anno o anche a  un piccolo G7 di allora, o meglio un G3 con il Papato, la Francia e  Firenze e spiegano la missione strategica che svolgeva Firenze nella Lunigiana Storica, chiave della via Francigena, avviandosi ad essere l’ago della bilancia tra gli stati italiani.

Nell’intricato risiko del ‘400, per cui le terre apuane cambiavano padrone rapidamente, possiamo postulare il passaggio del dipinto in mano genovese. Proprio perché la posizione sulla via Francigena portava i potentati a contendersi il corridoio lunense palmo a palmo, in una sorta di mappa a macchia di leopardo, con tanti castelli, tanti balzelli, confini strani, come ancora oggi vediamo.