foto di Silvia Meacci
Bongo è il nome con cui i fiorentini affettuosamente chiamano i profiteroles, tante bignoline ripiene di crema o chantilly disposte a piramide e ricoperte da una cascata di cioccolata. Non è un dolce di origine toscana, si sa. I profiteroles si diffusero in tutta Italia negli anni sessanta ma vengono dalla Francia come suggerisce il nome che deriva da “profit”, profitto, col suffisso diminutivo “-erole”, probabilmente piccolo guadagno, ricompensa, dopo un lavoro ben fatto. Pare tuttavia che l’invenzione della “pasta a caldo”, alla base della preparazione dei bigné, sia da attribuire al pasticcere fiorentino Penterelli. Nel 1540 la ricetta fu poi perfezionata da Popelini, riconosciuto come inventore della pâte à choux, dal francese “cavoli”, forse a causa della somiglianza dei bigné a piccoli cavoli. Popelini era stato portato alla corte francese da Caterina de’ Medici allorché sposò Enrico II nel 1533. Le figure di entrambi i cuochi restano però avvolte nel mistero: mancano fonti dirette che ne attestino l’esistenza. Secondo i francesi la pasta choux è invece da attribuire a Jean Avice o a Antonin Carême nel XVIII-XIX secolo.
Ma perché a Firenze questo dolce squisito è conosciuto come “bongo”?
Un nome colorito! Ci riflettevo sere fa gustando questa delizia all’Osteria Pratellino di Firenze, dove lo avevano preparato arricchendo il cioccolato con qualche goccia di rum. Nel corso della storia i nomi attribuiti ai piatti non sono sempre stati politicamente corretti. Da studi fatti sui testi antichi di cucina, tra cui le cinquantasette ricette scritte a mano del codice Riccardiano 1071, “Modo di cucinare et fare buone vivande”, del XIV secolo, uno dei più antichi ricettari in volgare fiorentino, si evidenziano nomi a effetto, oppure espressioni allusive, metaforiche. Pensiamo a “cascio stritolato”, “minestra di herbe pazze”, “brodo de pollastri in sapore de paradiso”, e le colorite “tette della monaca al fuoco dell’inferno”, dolcetti pugliesi del sedicesimo secolo. La lista sarebbe infinita e divertentissima. Il termine “bongo” si ritrova scritto per la prima volta nel 1974 ne “Il libro della vera cucina fiorentina” di Pedroni. “Bongo” forse perché la presenza e il colore della cioccolata suggerivano un che di esotico e del resto, “Africano” era, ed è, un termine già in uso in tante regioni sia per descrivere biscotti fatti con tuorli e zucchero, come gli “africani salentini” che richiamano nel colore e nella sostanza la sabbia del deserto, sia per preparazioni a base di cioccolato, come un dolce palermitano, il cilindro di Pan di Spagna pieno di crema e coperto di cioccolato croccante.
L’appellativo “bongo” nasce dunque negli anni settanta del novecento quando probabilmente un pasticcere di Firenze accettò da un amico il suggerimento di chiamare così i suoi profiteroles. Il nome riscosse successo e si diffuse. Forse, in chi suggerì quell’appellativo canzonatorio e antiquato, era ancora vivo il ricordo della canzone del 1947 ‘Bongo Bongo Bongo’ di Nilla Pizzi, il cui testo, per i concetti e le parole che esprime, oggi farebbe arrossire e vergognare chiunque. E oltre a un pensiero paternalista e colonialista, contribuì anche la tipica sfrontatezza e ironia fiorentina, spesso parecchio irriverente.