seconda e ultima parte
Diari Toscani incontra la dottoressa Ilaria Magni, storico dell’arte medievale, critico d’arte e curatore di mostre, scrittrice di saggi e libri. Vive in Toscana.

L’arte è stata rivoluzionaria, basti pensare alle Avanguardie artistiche e letterarie…
È vero: il mondo completamente nuovo che è nato nel Novecento è stato, al tempo stesso, una fortuna e una rovina. Il progresso rapido ci ha portato a estremi difficili da gestire. E non possiamo mai fermarci: gli artisti che vivono oggi hanno il dovere di andare avanti. Tuttavia, credo che la vera onestà sia imparare a distinguere nell’arte ciò che ha valore da ciò che non ne ha. Non ho soluzioni né ricette, anzi, ho solo dubbi sui quali riflettere, ma sono convinta che sia fondamentale riconoscere quando qualcosa esprime un messaggio autentico e significativo.
Il movimento delle Avanguardie è stato comunque un momento importante per l’arte…
Sì, l’arte è ciò che ci dà la spinta, ed è così importante che spesso non la vediamo per quello che è. La riduciamo a un semplice elemento decorativo, qualcosa da mettere sopra il divano per riempire un vuoto. Spesso mi accaloro, parlando con persone che acquistano oggetti anonimi nei negozi, e le invito ad avvicinarsi a opere originali, anche di artisti di strada o sulle bancarelle dei mercati, dove si possono trovare pezzi autentici a prezzi accessibili. L’arte non deve sempre essere legata alla speculazione di mercato. Bisogna dare valore al lavoro degli artisti. Dopo la rivoluzione del Novecento, l’arte può essere qualcosa di ancora diverso, forse qualcosa che oggi nemmeno riusciamo a immaginare. Serve qualcuno con il coraggio di esplorare nuove strade.
Cosa significa avere coraggio, e dove lo si trova?
Avere coraggio è una delle sfide più difficili. Forse significa abbandonare le sovrastrutture di cui parlavamo prima, smettere di trovare scuse e fare un passo indietro ogni volta che la paura prende il sopravvento. Io stessa ho vissuto momenti di blocco, spesso proprio a causa del timore di sbagliare. È una forma di auto-sabotaggio: ci tratteniamo, attiviamo un freno interiore che diventa un’ancora, impedendoci di osare. Ma la verità è che non sapremo mai cosa potrebbe accadere se non proviamo. Forse non succederà nulla, forse accadrà qualcosa di straordinario. L’unico modo per scoprirlo è agire.
La mancanza di coraggio può anche essere la paura di andare a sbattere contro una realtà che potrebbe non compiacerci e, soprattutto, non compiacere…
Condivido. Ci sono situazioni, ad esempio nella scrittura, in cui a un critico viene commissionato un lavoro che non sente nelle sue corde, ma che, per ragioni di opportunità, è spinto ad accettare: qualcosa deve pur uscire. Il rischio, però, è di produrre un testo sterile, privo di ispirazione, in cui l’essenza si riduce a un accumulo di paroloni e lodi fasulle per l’artista. Il risultato? Un testo che finisce per ridicolizzare sia l’artista –spesso chiamato Maestro, un appellativo talvolta abusato – sia chi scrive. In questi casi, il vero coraggio sta nello scegliere di non scrivere. Se un progetto non mi convince, preferisco rinunciare. Ma se decido di accettare, mi impongo sempre un momento di riflessione: faccio un passo indietro per valutare se ciò che sto scrivendo sia realmente sostenibile ed abbia un senso. In questi casi, ridurre al minimo gli aggettivi qualificativi rivolti all’artista è spesso una buona idea.
Ilaria, lei ha avuto esperienza anche come direttore di galleria…
Sono stata per un certo periodo direttore di Brancacci Art Gallery, una galleria d’arte contemporanea con sede a Firenze in piazza del Carmine, a fianco della cappella Brancacci. Si trattava di uno spazio molto particolare, ricavato in una chiesa sconsacrata che incontrava il gusto del design novecentesco, in quanto era stata sede di un famoso locale di tendenza qualche anno prima. È stato nel periodo successivo al Covid. In quel momento, come accaduto a molti, avevo perso un po’ il mio ‘equilibrio’, tanto che non avevo voglia di scrivere né di sentire nessuno, fatto salvo un caro amico, un anziano collezionista. Decisi di rientrare nel mondo lavorativo e sociale con questa offerta di lavoro. La direzione di una galleria era per me un incarico nuovo, o quasi, ma avendo vaste esperienze trasversali nel mondo dell’arte, è stato assai stimolante. È stata la scusa per ritornare nell’ambiente del lavoro, anche e soprattutto alla curatela e alla critica, che poi è quello che più amo, ma in generale mi diverto a spaziare nel campo dell’arte, qualsiasi aspetto dell’organizzazione mi affascina, dall’ideazione alla comunicazione.
Cosa comporta avere il ruolo di direttore di galleria?
Innanzitutto, non ci si improvvisa. È fondamentale avere una solida preparazione e una trasversalità di competenze. Dirigere una galleria significa strutturare un piano ben preciso a lungo termine. Quando si apre un’attività – perché è bene sottolineare che una galleria non è un museo, ma un’impresa commerciale – bisogna essere consapevoli che, inizialmente, i costi supereranno i guadagni. Per questo, è essenziale porsi un obiettivo concreto: entro cinque o sei anni, l’attività deve produrre risultati economici, a meno che condizioni particolari o contatti strategici non ci permettano di essere subito competitivi sul mercato. Una galleria deve avere una linea chiara e coerente, da promuovere attraverso comunicazione, mostre e partecipazione alle fiere. È fondamentale agire in modo da creare e mantenere una buona reputazione presso i collezionisti, evitando assolutamente di mettere insieme artisti e opere in modo casuale. Come dicevamo all’inizio della nostra conversazione: bisogna costruire qualcosa che abbia un senso. I risultati arriveranno, ma se così non fosse, forse sarebbe il caso di riconsiderare la propria strada.

Cos’è l’arte per Ilaria Magni?
L’arte per me è amore e odio. È una presenza costante nella mia vita, qualcosa da cui non mi distacco mai. Non esiste un momento in cui smetto di pensarci o di viverla. Sono circondata da amici artisti o legati al mondo dell’arte, perché è il mio universo, ed esserne immersa è ciò che desidero. Anche nei fine settimana, se non visito musei, mi piace curiosare nei mercatini, sempre alla ricerca di qualcosa di interessante, che puntualmente è lì ad attendermi. Non ho mai un momento libero.
Progetti futuri?
Sono in uscita due saggi: uno su Pietro Annigoni, in cui recentemente ho ritrovato alcuni suoi lavori giovanili, e l’altro su Niccolò Cannicci, pittore macchiaiolo e amico di Fattori. Le ricerche su Cannicci mi stanno portando a scoprire aspetti inediti e particolarmente interessanti della sua opera e della sua vita. Parallelamente, ho diverse mostre in fase di progettazione con il mio collega Maurizio Vanni, storico dell’arte e museologo, con cui collaboro con grande piacere. La prossima mostra che cureremo insieme sarà una personale di uno scultore contemporaneo, ospitata alla Biblioteca San Giorgio di Pistoia, mentre altre esposizioni sono in programma a stretto giro. Tra i progetti che mi entusiasmano particolarmente ci sono anche le iniziative l’Art Hotel Museo e all’Art Hotel Milano a Prato, due luoghi dedicati all’arte. L’Art Hotel Museo, insieme al Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci e alla Galleria Farsetti, fa parte dello stesso complesso realizzato all’architetto Italo Gamberini nel 1991. Al di là delle mostre e dei libri, il mio obiettivo nei prossimi anni è dedicarmi a ciò che mi dà soddisfazione e, perché no, anche divertirmi.
Quindi ha anche un po’ di voglia di divertirsi…
Assolutamente sì. Credo sia fondamentale, soprattutto in un lavoro come il mio, che può essere complesso e non sempre generoso di soddisfazioni immediate. Ci sono sacrifici, imprevisti, momenti di grande impegno, ma è proprio per questo che ho scelto di dedicarmi a ciò che non solo mi appassiona, ma che riesce anche a stimolarmi e divertirmi. Se si deve faticare, tanto vale farlo con entusiasmo.