L’ho sempre sostenuto: la Lunigiana non è un paese per giovani, perché, una volta terminati gli studi, i ragazzi hanno sempre più difficoltà a trovare una collocazione nel mondo del lavoro. Ma se l’economia e la politica non aiutano ad affrancarsi da una situazione di stallo e di stagnazione, allora è necessario che siano i giovani stessi ad affermarsi con un colpo di reni, creando realtà che possano, davvero, rigenerare il territorio e dare spunto ad altri per aprire nuove strade verso il futuro. Nuove strade che, a guardarle bene, sono, poi, vecchie, ma affrontate con spirito moderno, innovativo, perché è vero un vecchio detto che recita: “Non desiderare ciò che non hai, ma sfrutta ciò che possiedi”.

È ciò che ha fatto Francesca Bongi quando ha avuto l’idea di rilevare l’azienda agricola dei genitori per darle una nuova vita, in linea con le attuali necessità e le innovazioni dei nostri tempi. Sono andato a trovarla nella sua attività, un magnifico casolare immerso nel verde in località Porciglia di Montecorto nel comune di Fivizzano, che comprende oltre alla sua abitazione, la stalla per l’allevamento delle mucche, un laboratorio di trasformazione ed un punto vendita dei suoi prodotti.

Mi tocca andare a cercarla nei campi e lei si presenta felice e sorridente a bordo di uno dei trattori che guida meglio di tanti altri suoi colleghi maschi, intenta a sorvegliare alcuni lavori che due studenti dell’Istituto Agrario di Fivizzano stanno svolgendo nell’ambito del progetto scuola lavoro. Non è cosa di tutti i giorni trovare una ragazza di ventisette anni, immersa nel lavoro dei campi: lei rappresenta quella parte di gioventù lunigianese che ha scommesso sul territorio. Senza sprecare tempo Francesca mi porta a fare un giro a visitare le “sue ragazze”.

Quante mucche avete nel vostro allevamento?
In tutto abbiamo circa cinquanta mucche di varie razze, tutte da latte. In questa azienda abbiamo deciso di allevare anche la razza pontremolese. Pensa che era in via di estinzione, ne esistono circa un centinaio in giro per gli allevamenti, noi qui ne abbiamo venticinque. Producono meno latte delle altre, circa sei litri, ma siamo contenti di preservare la razza.

Deve essere una vita un po’ dura, che comporta tanti sacrifici…
Ma no, io non lo considero un sacrificio. È vero, mi alzo alle sei e mezza del mattino e pulisco la stalla insieme a mio padre. La stessa cosa la facciamo la sera e, poi, svolgo i vari lavori che ci sono da fare in una fattoria. Io lo considero più uno stile di vita che un sacrificio. Certo, come vedi, la stalla è piena di letame e quando esci non è che odori come una rosellina, ma io sono felice così.
Non è facile vedere una ragazza giovane come te fare un mestiere del genere…
Io studiavo giurisprudenza, anzi studio ancora: mi manca una decina di esami alla laurea. Quando c’è stato il covid e tutti siamo stati costretti a chiuderci in casa io ho cominciato ad aiutare mio padre con più assiduità. Rispetto ad altre persone godevo di molti più spazi per vivere e mi sono appassionata. Ho imparato tutto dai miei e così mi è venuta in mente l’idea di realizzare questo che vedi.
La tua è una decisione presa anche dalla storia della tua famiglia…
Beh noi siamo una famiglia di agricoltori, lo erano i miei nonni ed i nonni dei miei nonni. È vero che c’è tradizione, ma ci vuole anche passione, altrimenti questo lavoro non lo fai. Ho un’amica, anche lei cresciuta in campagna che è come me, non si fa dei problemi ad entrare in una stalla, sporcandosi di letame. Scherzando, diciamo sempre che siamo due maschiacci, ma tutto questo lo faccio senza rinunciare ad essere una ragazza come tutte le altre”.

Francesca ha dato un nome alle sue mucche e così mi porta a vedere le ultime due arrivate Martina e Stella, senza dimenticare di passare a salutare il toro Ulisse, che a giudicare dagli sbuffi non deve essere nella sua giornata migliore e non si lascia convincere a venire fino al recinto per una carezza. Lasciamo la stalla per andare a vedere una parte nuova di zecca di tutta l’azienda.

Entriamo in una sala che assomiglia molto ad un aula infatti, di fronte ad una specie di cattedra, ci sono una serie di banchi che possono ospitare comodamente una ventina di persone. Ad ultimare l’arredamento un grande schermo appeso al muro“. Questa è l’aula sociale – mi spiega Francesca – Tutta la fattoria è impostata su questo modello. Qui accogliamo i visitatori, principalmente ragazzi delle scuole e spieghiamo loro che cos’è la vita in campagna. Abbiamo già occupato tutto il mese di maggio. Potrà sembrarti strano, ma ci sono alcune persone che non hanno mai visto una mucca dal vivo e non parlo solo di gente che viene dalla città, ti dico anche gente che viene dalla campagna. Si è perso un po’ il contatto con la natura”
Insomma oltre a fare l’allevatrice insegni anche ai ragazzi a vivere la campagna…
Io, qui, faccio un po’ di tutto, la nostra è un’azienda a conduzione familiare. Quando il tempo è brutto non potendo fare più di tanto con gli animali, svolgo lavoro d’ufficio e quando è necessario aiuto o sostituisco mia madre che è la casara vera e propria”.
Ci spostiamo nel punto vendita, nuovo di zecca: “Non è grande, ma è sufficiente, qui dietro poi c’è il vero segreto” dice Francesca e mi introduce nella sala di stagionatura rifatta a nuovo. È una camera con i muri in sasso a vista, dove ha installato delle mensole in legno sulle quali sono appoggiate delle forme di formaggio a stagionare. “Pensa che il pavimento è fatto da uno strato di circa mezzo metro di sassi che appoggiano su un fondo di pietra – racconta Francesca – Sotto c’è la terra nuda, è fatta così per mantenere l’umidità, qui la temperatura non deve mai salire oltre i 12 gradi. Quegli inserti in cotto li abbiamo puliti uno per uno io e mio padre”.
Lo dici con un po’ di sconforto…
Ci è costato fatica e ci abbiamo messo un po’ di tempo, ma è ciò che ti rende orgoglioso alla fine di tutto. La vita in campagna è così”.

Dopo il punto vendita andiamo nel laboratorio dove sua mamma Nadia presta attenzione alla lavorazione della ricotta: “Noi produciamo formaggio: la nostra è tutta una lavorazione a crudo, non pastorizziamo il latte, per cui dobbiamo avere molta più cura nel prodotto finale, perché un solo errore potrebbe voler dire buttare via tutto. Anche gli esami sulla materia prima sono molto più accurati e frequenti rispetto ad una lavorazione a caldo.

Dunque lavorate solo il vostro latte…
Si possiamo usare solo il nostro e questo vuol dire che non possiamo nemmeno darlo ad altri se volessimo. Seguiamo il ritmo biologico delle mucche, a volte può anche accadere che il ciclo di lattazione si interrompa per motivi naturali e non abbiamo latte da lavorare: sono gli inconvenienti di questo mestiere, ma questo garantisce la qualità del prodotto finale.

È difficile da farlo capire a chi non è del mestiere?
A volte qualcuno viene a comprare il formaggio e non lo trova, si stupisce che un’azienda casearia come la nostra possa rimanere senza prodotti, ma, ripeto, noi seguiamo il ciclo biologico delle mucche, senza forzare in alcun modo la produzione. Seguiamo la natura.

Che tipi di formaggio producete?
Caciotta o fior di cacio a latte crudo. Una volta lavorato il latte col caglio lo mettiamo a stagionare in una cella frigorifera, dove rimane per 60 giorni, poi la facciamo stagionare in un’altra cella. Facciamo anche la ricotta e lo stracchino, ma per fare questo dobbiamo terminare il latte, cioè dobbiamo farlo andare a 68 gradi, poi la temperatura si abbassa e ci aggiungiamo dei fermenti.

Avete molto prato intorno: è tutto parte della vostra azienda?
Sì, sono circa trenta ettari. Una volta i miei nonni avevano anche una vigna dalla quale facevano il vino da consumare in casa. Ora produciamo solo fieno per le mucche e una piccola parte l’abbiamo dedicata alla coltura del grano tipo 23, un grano molto antico. Come vedi cerchiamo di preservare anche quello, non solo le mucche. Ci proviamo.

Continuiamo la visita e Francesca, con non poco orgoglio, spalanca una grande porta di legno che dà accesso ad una cappella privata: “Questa è la nostra cappella di famiglia – spiega – è consacrata ed è dedicata a san Carlo Borromeo, uno di quei tre santi raffigurati nel quadro dietro l’altare. Poi se fai attenzione sulla destra, qui dentro sono sepolti tutti i miei avi, c’è una cripta.”
È sorprendente osservare come la famiglia custodisca con affetto il ricordo dei propri cari insieme alla tradizione contadina che si protrae grazie al viso fresco e giovane di Francesca. È la disarmante semplicità di una vita agreste, nel verde sgargiante dei prati che circondano il casale, nella natura che finalmente si risveglia dal torpore della stagione invernale. Forse Francesca ha ragione quando dice che non bisogna pensare alla vita contadina come ad un qualcosa da fare con sacrificio, che bisogna intenderlo come uno stile di vita. Questa sua frase mi ha fatto riflettere molto: si può tornare a vivere senza la frenesia della città, con tutti i suoi malesseri e le sue assurdità, in accordo con l’ambiente che ci circonda, rispettando i cicli biologici degli animali che ci danno il cibo di tutti i giorni, senza per forza voler mangiare frutta o verdura fuori stagione, forzando l’ambiente e l’economia locale.
Finita l’intervista ho ripreso la via di casa, osservando da lontano Francesca riprendere con serenità le sue mansioni agricole e mi è venuto da pensare che forse ha colto il vero senso della felicità e per un po’ l’ho invidiata.