foto di Silvia Meacci
I ravioli vantano un’origine antica, sono documentati fin dall’inizio del Trecento ed erano un “ripieno” non necessariamente avvolto da pasta come si intende oggigiorno. Il raviolo poteva infatti essere sia nudo che vestito, mentre il tortello era sempre costituito da una pasta, ripiena e anche vuota. Secondo l'”Atlante della lingua e dei testi della cultura gastronomica italiana dall’età medievale all’Unità”, i ravioli possono essere “fagottini a base di ventresca di maiale”, oppure “porzione d’impasto a base di carne pesce, formaggio, uova, in una sfoglia di pasta cotta”, o ancora, ed è questa la definizione su cui voglio soffermarmi, “impasto di carne con vari ingredienti, cotto a piccoli pezzi senza essere avvolto in pasta (raviolo ignudo, raviolo senza sfoglia)”. In passato, come anche oggigiorno, gli impasti variavano in gusto, salato o dolce, e in dimensioni e forme, come un uovo, come una noce, più o meno allungati.
Pellegrino Artusi nella ricetta dedicata ai Ravioli alla genovese, dirà che “i veri raviuoli non si fanno di carne e non si involgono nella sfoglia”. Ancora più interessante risulta la testimonianza di Salimbene de Adam, frate francescano, che, nella sua “Cronica” riporta: “Quell’anno, il giorno della festa di santa Chiara mangiai per la prima volta dei ravioli senza crosta di pasta” (raviolus sine crusta de pasta: 1281-1288). Nel XV secolo Maestro Martino, parla di “ravioli bianchi” che “voleno esser senza pasta”. Il termine “raviolo” potrebbe derivare da una voce d’origine settentrionale probabilmente derivante dal lat.mediev. rabiola ‘piccola rapa’, forse per la forma della polpettina senza sfoglia.

Nel ricettario cinquecentesco di Bartolomeo Scappi del 1570, “Opera dell’arte del cucinare”, ristampata fino al 1643, troviamo ravioli “con spoglia”, ma nel capitolo 181 appare anche la ricetta per far la minestra di ravioli senza spoglia: “Pestinosi nel mortaro due provature fresche, overo due libre di cascio grasso, fresco con una libra di cascio Parmeggiano, o Romanesco grattato, sei uova, meza oncia di cannella, un quarto di pepe, e zafferano a bastanza, & come sarà pesta ogni cosa insieme, giungavisi una brancata di herbuccie battute, overo in loco d’esse biete tagliate minute, & soffrite in butire, & dapoi struccatone fuora il sugo, & fatta che sarà la compositione, faccianosene ravioli senza spoglia, cioè spolverizzisi la tavola di fior di farina, & piglisi d’essa compositione quanto una noce, & diasi loro la forma con la mano, di modo che venga l’un lungo un dito, & faccianosi cuocere in buon brodo, & servanosi con cascio, zuccaro, e cannella sopra”…”& nella compositione si può ancho mettere della ricotta”. Dunque, “cascio”, cacio, Parmigiano ( per Scappi, cuoco delle cucine vaticane sotto Papa Pio IV e Pio V, era il migliore del mondo ) o Romanesco grattato ( ma anche ricotta ), uova, cannella, pepe e zafferano, cui si aggiungevano le erbette o le bietole cotte e soffritte nel burro. Si dava forma a dei tocchettini cilindrici aiutandosi con la farina. Si facevano cuocere nel brodo e poi si servivano con formaggio, zucchero e cannella. A parte per le spezie e il condimento che virava al dolce, questa ricetta ha forti somiglianze con quella dei celebri “gnudi” toscani, formati da spinaci e ricotta, che si sono guadagnati un nome ironico ben in linea con il temperamento schietto dei miei corregionali. Gli “gnudi” pare si siano affermati nelle zone attorno a Siena e Grosseto, dove la pastorizia era molto praticata, ma la ricetta è ancora oggi tipica di tutta la Toscana. Per prepararli si lessano degli spinaci freschi, si fanno scolare affinché perdano più acqua possibile e si tritano finemente. Vi si devono aggiungere ricotta, uovo, parmigiano grattugiato, noce moscata, sale e pochissima farina 00, giusto per legare il composto. Si formano con le mani delle palline, o delle quenelle, che andranno tuffate delicatamente in acqua bollente. Sono un primo asciutto, non una zuppa, così, tolte dall’acqua quando affiorano in superficie, saranno adagiate sul piatto da portata e condite con burro fuso insaporito alla salvia, oppure con pomodoro e talvolta con un bel sugo di carne. Mia nonna ci grattava sopra tanto formaggio. La prima volta che ho mangiato i suoi gnudi, ho pensato che così profumati e tondi, non avevano davvero bisogno di essere racchiusi in un involucro per essere perfetti. Il gusto delicato degli ingredienti non era contenuto e attutito dalla pasta. A buona ragione lei ne andava fiera e soprattutto di questo mi rammento ogni volta che ci penso. Quel piatto appoggiatomi sulla tovaglia quasi con religiosità, veicolava la sua abilità, il suo amore e la cura.