Dante come non lo avete mai sentito e come avreste sempre voluto sentirlo. Questo è quanto accaduto sabato scorso nella sala lettura della biblioteca civica Corrado Martinelli, ex Tribunale di Sarzana dove Mirco Manuguerra, presidente del Centro Lunigianese Studi Danteschi, ha risposto alle domande sulla sua ultima opera “Via Dantis, Odissea ai confini della Divina Commedia” postegli dall’avvocato Gianpaolo Carabelli, mediatore e presidente dell’Associazione Canto Novo, Democrazia Futurista che ha ospitato l’evento.

Il binomio Dante-futurismo non è davvero casuale, in un percorso culturale cominciato proprio dal padre della lingua italiana e continuato da esponenti della letteratura come Leopardi e D’Annunzio, ed è stato, proprio Marinetti, padre di quel movimento filosofico artistico a elevarlo sui più alti gradini della storia italiana. Nell’esposizione di Manuguerra, Dante anticipa il futuro in maniera drastica cominciando dal basso, cioè redigendo forse la più maestosa opera letteraria mondiale usando la lingua volgare.

Nelle fasi finali del medioevo il mondo colto, nei documenti e nei pochi libri allora in circolazione si scriveva esclusivamente latino, una lingua appannaggio di pochi che escludeva gran parte del popolo che invece parlava lingue derivate ma pregne anche di termini acquisiti in più di ottocento anni da quel fiume di popolazioni entrate in Italia dopo la caduta dell’Impero Romano di Occidente. Dante vuole parlare alla gente comune, non solo ai colti, e vuole farlo con un linguaggio che sia comprensibile, arrivando perfino ad inventarsi termini che prima non erano mai stati sentiti, scegliendo come base il dialetto fiorentino. Esponendo la sua analisi del grande poema in concomitanza della festa della donna, Manuguerra ha volutamente evidenziare il tratto femminile che lo permea, svelando particolari che non sempre le lezioni di memoria scolastica sono riuscite e far emergere. Saltano subito all’occhio le tre donne che giganteggiano in ognuna delle cantiche: Santa Lucia come rappresentazione della Giustizia, Beatrice a testimoniare l’Amore e la Madonna esaltazione della poesia, in un concatenamento tale che senza di una non possono esserci le altre. C’è però anche un’altra donna che emerge tra le rime del poema, relegata da Dante ai tormenti dell’Inferno insieme al suo amante: Francesca da Rimini. È una figura che ha da sempre destato la pietà dei lettori ed anche lo scrittore stesso, nell’incontrarla nel girone dei lussuriosi, è mosso a compassione. Come possono due giovani che si amano così intensamente, essere scaraventati all’inferno? Forse Dio è impazzito? Niente di tutto questo, i due si amano senza l’uso della ragione, diventano schiavi del vizio, antepongono le loro emozioni ai suggerimenti della loro coscienza.

Fides et ratio, fede e ragione diceva Tommaso d’Aquino padre di quella teologia di cui Dante è pieno portavoce, “La Fede e la Ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità” scrisse molto più tardi Papa Giovanni Paolo II in una sua famosa enciclica. Veniamo quindi all’opposta estremizzazione della ragione, quella fine a se stessa, quasi alla sua perversione che ha determinato il tragico volo di Ulisse nel tentativo di andare oltre le colonne d’Ercole, che rappresentano il confine tra lo scibile umano e l’imperscrutabilità divina. Di questo parla il testo presentato e che merita una lettura attenta e approfondita, per cui di più non dirò. Ascoltare Manuguerra che spiega Dante è un piacere per le orecchie e per l’anima, per cui penso valga la pena andarlo ad ascoltare a Tresana in sala consiliare il 14 marzo, nessuno ne rimarrà scontento.