Diari Toscani incontra Matteo Betti atleta paralimpico. Vive a Siena città nella quale è nato. Ha iniziato a tirare di scherma da bambino, una carriera che è stato un divenire fino al conseguimento di un bronzo nel 2012 ai Giochi di Londra, un 4° posto alle Paralimpiadi di Tokyo nel 2020 e un argento alle Paralimpiadi di Parigi nel 2024.

Matteo, cosa significa atleta paralimpico?
Significa che sono un atleta, una persona normale nella vita, che ha scelto uno sport, e che ha avuto la fortuna di poterlo fare, prima a livello agonistico e poi a Siena nella squadra nazionale. La differenza fra sport olimpico e paralimpico è che quest’ultimo è praticato da persone con disabilità, per il resto cambia poco. La differenza, semmai, è fra fare sport agonistico e non agonistico, ma questo vale sia per le persone normodotate, sia per quelle con disabilità, e fra agonistico e non agonistico la differenza è grande.
Quindi parliamo di Paralimpiadi?
Sì, penso che le Paralimpiadi di Parigi abbiano mostrato, anche a coloro che non se ne erano accorti, il valore dello sport anche nella disabilità. Adesso le persone ci conoscono come atleti, non come persone con disabilità, e questo è un grande passo avanti per tutti. Le nostre gare in televisione sono state seguite da un notevole numero di spettori. Da agosto a dicembre 2024 la parola Paralimpiadi è stata tra le cinque più cercate su Google, questo significa che, finalmente, i paralampici li conoscono tutti, non tanto per l’aspetto sociale, che sicuramente è importante, ma anche per l’aspetto agonistico della prestazione.
Immagino che lei abbia un allenatore: che rapporto ha instaurato con lui?
È una guida tecnica: il Maestro Simone Vanni, ex medaglia d’oro ad Atene 2004, e tre volte campione del mondo. È diventato da poco commissario tecnico della squadra nazionale olimpica di fioretto di scherma, prima era commissario tecnico della squadra nazionale paralimpica. Conobbi Simone dodici anni fa, in palestra, e capii che era la figura giusta per me e da allora mi alleno con lui, tre volte la settimana, a Pisa. C’è voluto del tempo, diversi anni, per riuscire a raggiungere qualche risultato importante e per trovare il nostro “equilibrio”.
Ciò che lui dice, per lei, è Bibbia?
Sì e no: lui la scherma la conosce molto bene e abbiamo una visione molto simile, quindi, finché non metto la maschera sul campo, diciamo di sì. Quando metto la maschera, avendo scelto di divertirmi, in gara, voglio essere libero di fare tutto ciò che riesco a fare e decidere ciò che voglio fare. È chiaro che per arrivare al divertimento è necessario un buon allenamento.
Lei è un tipo ribelle?
No. Senza la maschera sulla testa, ovvero nella vita privata, sono molto tranquillo. Quando sto gareggiando è un po’ differente. Fondamentalmente, tirare di scherma è cercare di ingannare l’avversario, portarlo dove voglio io, in poche parole “tendergli una trappola” e in questo caso la strategia è mia, se fosse di qualcun altro sarebbe, appunto, la “trappola” di qualcun altro e non la mia.
A quanti anni si è avvicinato al fioretto?
Sono andato in palestra a cinque anni per fare riabilitazione e ho avuto la fortuna di poter continuare la mia riabilitazione in maniera divertente: la scherma. Ho cominciato in piedi fino al 2005, avevo venti anni, il problema di allora non era quello che ho oggi, per il quale tiro di scherma in carrozzina. Quindi, ho fatto scherma olimpica fino al 2005 esattamente come tutti coloro che non hanno velleità di entrare nella squadra nazionale, oltretutto non era mai stato il mio obiettivo farne parte. Man mano che crescevo, mi rendevo maggiormente conto dei miei problemi a livello fisico, e nella scherma questo è molto tangibile, quindi mi ponevo degli obiettivi stagionali che, se pur non così facili da raggiungere, non erano nemmeno così impossibili come poteva essere quello di entrare nella nazionale. Qualche volta li raggiungevo e qualche volta no, poi nel 2005 si presentò l’occasione, casualmente, di provare la scherma in carrozzina. Non sapevo nemmeno che esistesse.

Com’è nata la passione?
È nata con la complicità dei miei genitori: quando si presentò il problema di scegliere uno sport che fosse adatto alla riabilitazione. Alcuni sport non li potevo fare perché sarebbero stati pericolosi. Avendo una cicatrice cerebrale, negli anni della crescita era sconsigliato che facessi sport tipo karate, judo o pallavolo, e altri sport non mi interessavano. Quando mi proposero la scherma ero un bambino, l’idea delle spade mi intrigava, a me piaceva molto D’Artagnan, e a quel punto la scelta fu facile.
Avere chi crede in noi è importante, chi ha creduto in lei?
Nel mio caso, è stato fondamentale tenere saldo il rapporto tra genitori e figli, non tanto che abbiano creduto in me per quanto riguarda l’aspetto sportivo. Mia madre è svizzera, perciò ho avuto una educazione abbastanza ferrea, anche se mitigata dagli anni di vita vissuta in Italia. I miei genitori non mi hanno mai protetto dall’inabilità e da tutti quei gesti quotidiani che era necessario che io apprendessi. Le faccio un esempio banale: oggi ho quasi quaranta anni e non c’è nessuno che mi leghi le scarpe, ho dovuto imparare a legarle da solo fin da piccolo, sicuramente impiegandoci il doppio, anche il triplo del tempo di quello che impiegavano i miei coetanei, ma l’obiettivo era che io ci riuscissi Onestamente non è che io avessi tutta quella voglia di impegnarmi per allacciarmi le scarpe, ma per loro era fondamentale che io imparassi, anche se sarebbe stato più facile e veloce farlo fare ad altri. Penso che sia necessario avere qualcuno che ci dia gli strumenti per affrontare la vita, ed è esattamente questo che hanno fatto i miei genitori con me. Purtroppo vedo che molti ragazzi, anche senza disabilità, vengono eccessivamente protetti quindi è difficile per loro acquisire quegli strumenti necessari per affrontare la realtà quotidiana.
Ci sono anche altre persone che hanno creduto in lei, mi riferisco al Chianti General Service, il suo sponsor, cosa ha significato e significa per lei?
E’ importante sapere che tante persone e tante realtà credono in ciò che faccio, e che questo possa avere una ricaduta proprio sul territorio anche a livello di messaggi che si possono lanciare, è uno stimolo considerevole. Quando ci sentimmo con Augusto Bianciardi per le paralimpiadi di Tokyo del 2020, per le quali fu mio sponsor il Chianti General Service, fui molto felice. Quello che ottenni fu un ottimo risultato, anche se per me amaro perché arrivai quarto, però molto importante per raggiungere poi il risultato di Parigi.
Come ha conosciuto Augusto Bianciardi?
È stata una combinazione, abbiamo una conoscenza in comune.

Lei è stato testimonial di diversi eventi tra i quali anche la Festa dello Sport che si tenne la scorsa estate organizzata proprio dal Chianti General Service in cui furono coinvolti molti ragazzi. Quanta responsabilità c’è nel suo ruolo?
Io interpreto questa responsabilità con molta leggerezza, non ho nessuna pretesa di insegnare qualcosa a qualcuno in quanto questo aspetto non mi appartiene. Naturalmente ho venti anni di esperienza nel mondo paralimpico e il mio contributo è quello di raccontare la mia storia, perché a qualcuno potrebbe risultare utile. Quando mi capita di parlare in pubblico trovo sempre grande interesse, ma, soprattutto, molto affetto. Questo significa che qualche messaggio arriva.
Per arrivare ai suoi risultati quante ore di allenamento al giorno sono necessarie?
Sono un professionista: è ufficialmente il mio lavoro e quindi faccio due sessioni di allenamento al giorno, non facilmente quantificabili in ore. Queste sessioni comprendono la parte tecnica, fisica e la prevenzione. A quarant’anni la prevenzione è molto importante. In totale abbiamo otto sessioni a settimana e poi, normalmente, c’è un evento nel fine settimana, altrimenti riposiamo. A queste sessioni si sommano le tre volte la settimana in cui vado a Pisa per allenarmi con il mio Maestro Simone Vanni.
Il rapporto con il suo fioretto, o ne ha più di uno?
Noi schermadori non possiamo concederci il lusso di affezionarci all’arma, ne rompiamo quattro-cinque l’anno. È abbastanza normale averne più di una, ed è fondamentale averle tutte uguali, anche da poterle cambiare durante il match, perché se abbiamo anche solo il sospetto che qualcosa non va, che la punta non tocchi bene, è bene cambiare l’arma. Le lame sono fatte di una lega di acciaio che le renda resistenti e al contempo molto elastiche. Quando la punta arriva sul bersaglio la lama si piega, ovviamente non deve rompersi perché sarebbe pericolosa. Comunque, devo essere tranquillo quando vado sull’assalto e quindi passo molto tempo a manutenere il fioretto e a cercare soluzioni al fine di renderlo il più possibile performante.
Il suo stato d’animo quando partecipa alle gare?
Ora molto bello, a prescindere dall’aver vinto a Parigi. Quando partii per le paralimpiadi di Tokyo, non sapevo dove sarei andato: era una paralimpiade molto strana, contingentata. Avevo deciso che in quell’occasione avrei voluto divertirmi, gli unici momenti in cui fu possibile furono durante la gara, per il resto eravamo molto controllati, era una situazione estremamente particolare e non poteva che essere vissuta così. Volevo tornare da Tokyo con qualcosa d’importante, ovviamente non si può decidere di tornare con una medaglia, la si deve conquistare, perciò il mio proposito era dunque fare quello che sapevo fare insieme a divertirmi. Le gare andarono molto bene, al di là del quarto posto, che oltretutto non era in preventivo, e le sensazioni che provai in quella trasferta me le sono tenute care e sono state un bagaglio importante per l’esperienza di Parigi. Nelle ultime interviste che rilasciai prima di partire per Parigi, la frase che ripetevo era: parto con l’intenzione di divertirmi e prendere la paralimpiade come esperienza personale. Il risultato finale è stato la conquista della medaglia d’argento. Mi sono anche chiesto se avessi fatto quelle affermazioni per scaramanzia, probabilmente invece era una mia modalità per portare a casa un risultato arrivato con gli sforzi e l’impegno che avevo messo nella preparazione.
Quindi ogni esperienza che lei ha fatto è stata una tappa per arrivare poi hai risultati conseguiti?
Indubbiamente, se riuscissimo a fare cento olimpiadi arriveremmo alla perfezione, ma occorrerebbero quattrocento anni, perciò è impossibile. Comunque, ciascuna delle mie cinque partecipazioni mi ha lasciato qualcosa di importante
Quanto la mente influisce sulla prestazione sportiva?
Nella scherma, sempre. A Parigi non ho fatto la paralimpiade del più forte, anche perché non mi ci sentivo, o almeno questa era la mia percezione: ho fatto quella del più intelligente, sono arrivato a quel risultato con intelligenza. Sicuramente il percorso che ho fatto negli anni successivi a Tokyo ha dato i suoi frutti e mi ha fatto acquisire una diversa consapevolezza.
Se non è un’informazione riservata, prima di una gara c’è un pensiero che le dà la carica?
Dopo tutti gli anni di esperienza arrivo abbastanza spensierato, so ciò che devo fare, la mia concentrazione è rivolta al match, non ci sono filosofie. Arrivo in pedana, grazie all’esperienza acquisita, con lo stato d’animo leggero.
Lei ha un bambino di cinque anni, sta pensando di insegnargli a tirare di scherma?
Ogni tanto lascio un fioretto di plastica per casa… chissà, è presto per dire. Mio figlio è incuriosito un po’ sì e un po’ no. Al momento giusto magari un passaggio in palestra per provare glielo farò fare. Quest’anno, lui e mia moglie sono venuti a Parigi, ed è stato bellissimo averli con me, ho vinto davanti alla mia famiglia. Lui si accorgeva che era una situazione particolare in cui il babbo stava facendo qualcosa di importante. Vediamo.
Progetti futuri?
Per anni sono stato sempre proiettato e focalizzato sulla gara successiva. Questo perché a ventidue anni è normale guardare al risultato dopo, che sia stato esso buono oppure no. A forza di guardare alla gara successiva sono arrivato a 39 anni, adesso guardo all’anno successivo. E anche in questo caso dico: vediamo.