Da tempo sui media si discute della “fuga dei cervelli” dall’Italia cioè di quanti profili eccellenti, soprattutto giovani, emigrano annualmente dal bel paese verso il resto del mondo. Quella italiana all’emigrazione è una tendenza che registra numeri importanti: si stima, infatti, che gli oriundi italiani, individui di discendenza italiana nel mondo, ammontino a un numero compreso tra i 60 e gli 80 milioni dato che conferma che l’Italia è una nazione con una lunga storia di migrazioni connesse a motivi che non sono molto cambiati nel tempo. Le cause che spingono, oggi, tanti giovani, soprattutto appartenenti alle categorie con un tasso di scolarizzazione estremamente elevato – i cosiddetti “cervelli in fuga”, appunto – a trasferirsi altrove sono legate, come un tempo, a fattori lavorativi e meritocratici derivati da un mercato del lavoro inadeguato rispetto ai repentini mutamenti delle tendenze economiche, che consigliano ora questo, ora quel percorso formativo da seguire. La motivazione principale è sicuramente l’aspetto salariale, messa in relazione alle competenze maturate dai laureati nelle loro carriere scolastiche, sempre più specializzate. Chiaramente, sulla decisione di cercare fortuna all’estero, influisce anche il livello di inflazionamento degli studi: laddove, per svolgere un lavoro, bastava un diploma, ora è necessaria quantomeno una laurea triennale, a parità di retribuzione. Il problema si fa ancora più serio, se consideriamo che i giovani italiani non sono certo tra i più fortunati d’Europa dal punto di vista degli stipendi: secondo quanto emerge dallo studio condotto da Mercer – società internazionale di consulenza – nel 2024 sulla retribuzione media dei giovani al primo impiego, l’Italia si posiziona a circa metà classifica. Va assai peggio nel report “Meritometro”, dove l’Italia si posiziona all’ ultimo posto tra dodici paesi europei presi in esame. Dati inequivocabili e preoccupanti, che giustificano ampiamente il quadro negativo della bilancia migratoria, dove il risultato del “valzer” di connazionali, equivale ad un passivo di 100 mila individui su base annuale. Oltre che una grave perdita identitaria, questo esito rappresenta anche un ingente perdita economica per lo stato, che spende, in media, circa dodici mila dollari l’anno a studente: non poco se consideriamo che andrà a generare “PIL” all’ estero. Eventuali correttivi potrebbero consistere nel riconoscimento di stipendi adeguati per le posizioni più qualificate, nell’erogazione di contributi economici o ancora, in particolari misure ad hoc per scongiurare questi rischi tangibili, oltre che assolutamente legittimi. Tuttavia, l’argomento può essere letto anche da una prospettiva diversa, più arricchente. Le esperienze maturate dai giovani italiani nel mondo potrebbero sicuramente tornare utili al paese in un’ottica futura, nell’eventualità auspicabile di un rientro dei talenti, magari dietro adeguati compensi incentivanti, oppure sulla spinta di una nostalgia di casa e del proprio paese che riesca a prevalere sulla semplice logica economica.
Il ritorno, auspicato, dei cervelli in fuga
