Non so a voi, ma a me piace la musica e quando dico questo, intendo proprio tutta la musica. Certo ho le mie preferenze, come tutti, ovviamente, ma spesso vado in cerca di cose nuove, generi mai sentiti e il mio orecchio è disposto a dare una possibilità a chiunque. Navigavo, quindi, qualche giorno fa, tra una canzone e l’altra, quando mi sono imbattuto in un genere che non avevo mai sentito: il grindcore. Letteralmente “to grind”, vuol dire macinare, per cui, suppongo, che il tutto significhi qualcosa tipo “macinare il nucleo”. Non è un granché come spiegazione, per cui ho deciso di cercare una definizione e quello che ne è venuto fuori è: “forma estrema della musica punk e della sua variante hardcore”. Comincia a dirmi qualcosa e credo sia uno stile che si avvicina al metal estremo, tipo trash o death Metal. La cosa non è che mi attiri molto, ma ormai sono preso dal gorgo e comincio a cercare: saltano fuori band (prendete nota se siete curiosi) chiamate Napalm death, Slayer, Carcass, Sore Throat, Anaal Nathrakh. Provo a sentirne qualcuna: ritmi di batteria vertiginosi, chitarre distorte oltre ogni limite, cantanti che, in pratica, ruttano ininterrottamente al microfono. Un delirio. L’ho detto all’inizio, io sono davvero aperto a tutto, ma forse ho trovato i miei limiti e mi chiedo chi possa mai andare ad un concerto per sentire un’orgia di rutti, note buttate a caso e chitarre che coprono tutto. Cerco pezzi dal vivo e vedo le persone che sbattono la testa avanti ed indietro violentemente, fino quasi a farsi schizzare le vertebre cervicali fuori dal collo e pogano, pogano come se non ci fosse un domani. Pogare vuol dire mettersi tutti in cerchio e lanciarsi da un punto qualsiasi per scontrarsi nel mezzo con uno che fa lo stesso dall’altra parte. Un gioco a darsi gomitate, spintoni tra le risa e le incitazioni degli altri, che non aspettano altro che il loro turno. È il bello dell’espressione creativa. Tutto riuscirebbe a stare nei limiti dell’ordinaria straordinarietà, se non fosse che, mentre esploravo questo mondo un po’ particolare, non mi imbattessi nella storia di Biquette, la capra Grind o meglio la capra punk, come è stata definita in seguito. La storia prende corpo nel villaggio francese di Mauriac dove esisteva (forse esiste ancora, non saprei) una fattoria occupata, all’interno della quale era stata creata una zona concerti dove si esibivano band, anche locali, legate al mondo hard punk, grind core e tutta quella sequela di stili di cui vi ho detto prima. Dopo cinque anni passati in un allevamento, dove era stata cresciuta per il suo latte, non essendo più produttiva, da quel ho capito, fu ceduta perché, se fosse stata mandata al macello, non avrebbe reso abbastanza. In fuga, quindi, da una triste sorte, venne accolta in questa nuova realtà e qui avvenne la trasformazione in capra punk. C’è da premettere che Biquette era il suo nome, ma sembra che in francese, biquette con la b minuscola stia ad indicare, in modo un po’ dispregiativo, la femmina della capra. Fidandoci delle fonti, dobbiamo accettare il fatto che si chiamasse “Caprazza” o qualcosa di molto simile. Per cinque anni Biquette non ha mai perso un singolo concerto, andando a piazzarsi nel centro della pista o sotto le casse, se non addirittura di fianco agli artisti, come accadde quando si piazzò per tutta la durata del concerto di fianco al bassista dei Panzer Cardinal, ammesso che lui se ne sia accorto, dal momento che la cronaca del tempo racconta che fosse abbastanza allucinato. Caprazza andava al suo spettacolo preferito appena sentiva le prime note e non se ne andava finché tutto non era finito, mangiava tutto quello che trovava per terra e Dio solo sa cosa c’era per terra durante quei concerti, adorava il tabacco, i mozziconi di sigaretta, leccava i fondi dei bicchieri svuotati dai loro contenuti alcolici. “Consumava anche una discreta quantità di vernice dai fondi dei secchi o olio di scarico…” racconta Flo, uno a cui si ruppe la macchina in quel villaggio ed era ancora lì quando gli fu chiesto di quella strana storia – non mi meraviglierei di trovarlo ancora lì, oggi.

Biquette o Caprazza, come volete chiamarla, passò gli ultimi cinque anni della sua vita tra musica, droghe e vernice: morì nel dicembre del 2013, lasciando decisamente un grande vuoto, ma diventando allo stesso tempo un’icona negli ambienti dedicati, tanto che gli è stata pure dedicata una action figure.
Vi ho dato un sacco di indizi su nuovi orizzonti musicali da esplorare e se una di queste sere, nel tentativo di sfuggire all’incombente Sanremo, vi capiterà di sentire gente che rutta il nome di Biquette al microfono, conoscendo questa storia, chiudete gli occhi e immaginate di pogare insieme a lei nel bel mezzo della fattoria di Mauriac.