Se l’arte può essere terapeutica per curare gli eventi traumatici, Artemisia Gentileschi può esserne il più fulgido esempio. Nacque a Roma l’8 luglio 1593 da Orazio Lomi, un pittore tardo-manierista nativo di Pisa e Prudenzia di Ottaviano Montoni. Artemisia Lomi Gentileschi divenne orfana di madre nel 1605 e, seguendo le orme paterne, iniziò a immaginare un destino artistico. Orazio le insegnò la macinazione dei colori, l’estrazione e la purificazione degli oli e qualsiasi rudimento dell’arte pittorica. Parallelamente, Artemisia dovette occuparsi della gestione della casa in mancanza della genitrice. Le opere di Caravaggio influenzarono la giovane Artemisia. Nel 1608 il rapporto padre-figlia si trasformò in una collaborazione artistica. La prima opera attribuita alla Gentileschi è Susanna e i vecchioni, nella quale sono presenti il realismo di Caravaggio e tratti della scuola bolognese di Annibale Caracci, correva l’anno 1610. Orazio Lomi decise che per Artemisia era arrivato il momento di seguire una guida diversa, per tale motivo, nel 1611, la giovane Gentileschi iniziò a collaborare con Agostino Tassi che, in quel periodo, stava lavorando alla realizzazione della loggetta della sala del Casino delle Muse al palazzo Rospigliosi. Agostino Tassi aveva la fama di guascone, anche se pittore di talento. Accadde qualcosa che segnò per sempre l’esistenza di Artemisia. Dopo vari approcci rifiutati, Agostino Tassi violentò la ragazza: lo stupro avvenne in casa Gentileschi in via della Croce. Agostino Tassi per salvarsi dalla denuncia blandì Artemisia, promettendo di sposarla. Quando la Gentileschi scoprì che Tassi in realtà era già sposato, si inquietò e promise di vendicarsi. Orazio Gentileschi scrisse una lettera infuocata di querela al papa Paolo V e sporse denuncia contro Agostino Tassi. Artemisia Gentileschi, con molto coraggio, affrontò il processo e le sue fasi spesso mortificanti per la ragazza, già traumatizzata dallo stupro. Artemisia non abbassò mai la testa e malgrado le torture subite per farla ritrattare, non cambiò la sua deposizione. Agostino Tassi venne condannato il 27 novembre 1612, anche se Artemisia fu costretta a subire il dileggio di alcuni romani che la ritenevano addirittura colpevole di aver provocato Tassi. Proprio a causa della meschinità, Artemisia Gentileschi decise che era arrivato il momento di cambiare aria. Si trasferì a Firenze e sposò, alla fine del 1612, Pierantonio Stiattesi, un pittore modesto che amava vivere al di sopra delle proprie possibilità. Il soggiorno fiorentino si dimostrò fruttuoso per Artemisia: entrò in contatto con la famiglia Medici, in particolare con Cosimo II che era molto sensibile all’arte. In quel periodo Artemisia Gentileschi frequentò Galileo Galilei e Michelangelo Buonarroti il giovane, nipote del celebre artista. Nel 1616, fu la prima donna ad essere ammessa presso la prestigiosa Accademia delle arti del disegno di Firenze. Dipinse l’Allegoria dell’Inclinazione su commissione del Buonarroti, poi ancora Giuditta con la sua ancella, oggi conservato a Palazzo Pitti di Firenze. Artemisia Gentileschi fu costretta a lasciare Firenze a causa della dissolutezza del marito. Nel frattempo la coppia ebbe quattro figli, Giovanni Battista, Cristofaro, Prudenzia e Isabella. Artemisia Gentileschi, insieme alla sua famiglia, tornò a Roma. In quel periodo Artemisia fu al centro di uno scandalo, a causa di una relazione clandestina con Francesco Maria Maringhi. Nel 1621 seguì suo padre a Genova per un breve periodo e nella città ligure conobbe Van Dyck e Rubens. L’anno seguente acquistò una casa in via del Corso a Roma e per confermare il rimpatrio nella città eterna, dipinse il Ritratto di gonfaloniere, oggi conservato a Palazzo d’Accursio di Bologna. A Roma trovò nuova ispirazione per le sue opere e dipinse forse uno dei suoi quadri più famosi, Giuditta con la sua ancella, oggi conservata a Detroit. La fama di Artemisia Gentileschi divenne sempre più ampia nel paese e tra il 1627 e il 1630 l’artista ebbe molte ricche commesse da Venezia, città che la accolse entusiasticamente e ne confermò il valore artistico. Nel 1630 Artemisia Gentileschi si recò a Napoli seguendo le tracce di Caravaggio, attratta dal fervore della città, che aveva ospitato: Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Annibale Caracci. Artemisia di innamorò di Napoli e pur con qualche rimpianto per la natia Roma, decise di stabilire la sua famiglia. Nel periodo napoletano dipinse: San Gennaro nell’anfiteatro di Pozzuoli, l’Adorazione dei Magi, i Santi Procolo e Nicea. Poi ancora la Nascita di San Giovanni Battista, conservata al Prado di Madrid. Nel 1638 Artemisia Gentileschi si recò a Londra, presso la corte di Carlo I, raggiunse suo padre che era diventato pittore di corte, avendo ricevuto l’incarico della decorazione di un soffitto nella Casa delle Delizie della regina a Greenwich. Artemisia era molto ammirata da Carlo I e, per questo motivo, nella collezione del Re, era presente un’opera della Gentileschi, l’Autoritratto come allegoria della Pittura. Allo scoppio della guerra civile, Artemisia Gentileschi rientrò a Napoli, era il 1642. Da quel momento si perdono tracce concrete dei suoi spostamenti e addirittura della sua morte, che avvenne a Napoli tra il 1654 e il 1656. Artemisia Gentileschi sembra sia passata sulla terra, lasciandoci ancora cose da scoprire. Certamente è stata una grande artista e ancora prima una donna risoluta che ha saputo prendersi il suo tempo e viverlo fino all’ultimo istante.
Artemisia Gentileschi: l’arte come terapia
