In Toscana lo si trova in tutti i bar la mattina per colazione e si presenta come un “bicchierino” di pasta frolla, farcito e spolverato con zucchero a velo. Dentro nasconde il riso, cotto nel latte zuccherato e aromatizzato con vaniglia, cui è aggiunta la crema pasticcera. In cottura il ripieno rigonfia e sbuffa conferendogli la caratteristica forma. Non è un budino molle o gelatinoso come il nome farebbe pensare e forse si chiama così solo per il suo cuore morbido. L’etimologia di budino, infatti, deriva dal latino botellus, budello per salsicce, poi passato al francese, boudine noir, sanguinaccio, e all’inglese, black pudding. Solo successivamente il termine designò dolci dalla consistenza morbida e scivolosa. Il termine italiano “bodino” , adattamento dell’inglese e anche del francese, apparve per la prima volta nel 1808 e “budino” nel 1892. Di origine toscana, il budino di riso vanta origini pistoiesi, tuttavia anche Firenze ne rivendica la paternità e, secondo lo storico Giovanni Righi Parenti, pare invece che le radici siano da ricercare a Siena, patria del “budinone”, una torta di riso con canditi e uvetta. A Carrara esiste la torta di riso e anche l’Emilia Romagna vanta la torta di riso reggiana, o la “tåurta di Adòb”, la torta degli addobbi di Bologna. Pure in Veneto era diffusa una sorta di “budino” salato o dolce e utilizzato come secondo piatto, molto nutriente con latte, farina, riso, uvetta.
Il nostro dolcetto monoporzione, agli albori farcito solo con riso cotto nel latte, nacque probabilmente nei primi del novecento, per poi diffondersi dagli anni ’30. È interessante sapere che a quell’epoca dall’appenino tosco-emiliano partivano molte donne, di un’età compresa tra i tredici e i sessanta anni, purché sane, verso le campagne vercellesi e novaresi per fare la monda, vale a dire, estirpare la malerba nelle risaie e anche trapiantare le piantine per quaranta giorni tra aprile e giugno. E una volta ritornate a casa dalla loro famiglia, per festeggiare la fine della monda, preparavano dei dolci a base di riso perché per contratto venivano pagate anche con sacchi di riso, un chilo per ogni giornata di prestazione. Un cibo che fiorisce dalla fatica, la dolce compensazione dopo un periodo di sofferenza.
Le mondine lasciavano le famiglie andando incontro a una vita disagiata, fatta di malaria, contagi, cattiva igiene, stenti, ingiustizie e malretribuzione. Un lavoro stagionale, duro ed estenuante, dipinto dal cinema (ricordate “ Riso amaro”, con Silvana Mangano e Vittorio Gassman?), celebrato anche dall’arte e affrontato dagli studiosi del lavoro salariato femminile: le tensioni per gli orari lunghi e sfiancanti, i canti di protesta come il celebre “Se otto ore vi sembran poche”, il grande sciopero del 1906 e le conquiste raggiunte. I tempi sono cambiati, il lavoro delle mondine è stato sostituito dalle innovazioni tecnologiche e, ahimé, dagli erbicidi. Rimangono le torte e i budini di riso. Perché ogni cibo reca in sé la storia dell’umanità.