Siamo agli sgoccioli delle festività natalizie e, come tutti gli anni, non si sa bene come, siamo riusciti a sopravvivere a cenoni natalizi, cenoni post natalizi con gli avanzi, cenoni di capodanno con trenini all’urlo di “Brigitte Bardot Bardot!”, pipponi giganteschi su come evitare di rimanere senza qualche dito della mano l’ultimo dell’anno, tanto poi sempre i soliti fanno quello che vogliono (e rimangono senza qualche dito della mano). Arriveranno anche i soliti consigli su come eliminare i chili presi in più e su come far sparire gli ultimi avanzi di pandoro e panettoni atterrati sulle nostre tavole. Insomma tutto un insieme di argomenti ricorrenti che concorrono a formare una nuova tradizione moderna da affiancare a quella antica e già ben radicata. Tra le ultime usanze arrivate, specie nell’abitudinario italiano, dal 1983 si è inserita quella di guardare in televisione, la notte della vigilia di Natale, il capolavoro di John Landis “Trading places”, disumanamente tradotto in italiano con “Una poltrona per due”.
Una pellicola che in breve è diventata, insieme al “Grinch” e al “Canto di Natale” di Dickens, un film che nelle festività non può non essere visto. Non starò qui a riassumerne la trama, perché mi rifiuto di pensare che qualcuno possa non averlo visto o possa non averne almeno sentito parlare. Quel che è certo è che, se fino all’anno scorso, tutti erano d’accordo nell’inserirlo nella lista dei 30 film di Natale più belli di sempre, la stessa rivista che si impegnò a formulare quella singolare classifica, ultimamente si è sperticata nel criticarlo, definendolo in poche parole un film razzista e poco attento alle esigenze della nuova cultura (woke) nascente. Per dirla con le parole loro (sto parlando della rivista Vanity Fair) la pellicola è permeata da un aura che “tende a giustificare una tendenza palesemente retrograda”: usano la “N word”, che per chi non lo intende è la parola negro e che ormai non si può più nemmeno pensare, figuriamoci pronunciarla; rappresentano in maniera disdicevole “Stanze del potere in cui è presente solo servitù nera” e per ultimo, ma è davvero lunga la lista delle cose che la rivista critica, “per esempio, sfidiamo chiunque a dire che la blackface del personaggio di Aykroyd faccia ancora ridere. È sicuramente, tra tutte, la cosa che nella contemporaneità risulta più offensiva, reazionaria e antiprogressista”. Insomma, per riassumere, questo film è una summa di quanto più disdicevole, razzista e retrogrado possa trovarsi in film da proporre alle famiglie la notte di Natale. O forse dovremmo dire la notte della festa d’inverno? Perché, personalmente, mi sembra che ormai tutto ciò che fa parte del nostro passato vada sradicato e buttato nella pattumiera, a favore di un lessico che sia rispettoso di un mondo a cui non riesco più a dare un volto. Stando a questi canoni imposti, film considerati pietre miliari della cinematografia mondiali andrebbero buttati nell’inceneritore, “Rise of a nation” di Griffith su tutti. Che dire allora di “Totò l’africano” film in cui il principe De Curtis si presenta non solo con la faccia dipinta di nero ma con addirittura l’anello al naso? In “Una poltrona per due” Dan Aykroyd si tinge la faccia di nero, fingendosi compagno di studi di un Eddy Murphy che finge di essere un principe del Senegal, peccato che poi rovini tutto imitando un italiano stentato e alludendo nemmeno troppo velatamente all’uso di stupefacenti. Immaginate un mondo in cui il geloso Otello si trasformi in un vichingo norvegese per non offendere gli africani, oppure dove Shakespeare debba reinventare Shylock, il mercante di Venezia, perché rappresenta il tipico ebreo gretto, rancino e avaro. Potrei andare avanti per ore, finendo anche sull’icona dei trash movies italiani degli anni ‘70, Thomas Milian, quando interpretava il commissario Giraldi, ricordando una scena del film “Delitto in formula uno”, in cui un domestico africano parlando con la tipica cadenza recitativa del caso, canticchiava “Io povero negro, sempre lavorare, tu maresciallo, sempre scopare”. D’altronde questa opera di repulisti è già iniziata da tempo e penso alla famosa Biancaneve mulatta accompagnata da sette personaggi, che non sono più nani e non ho idea di cosa siano, perché mi sono rifiutato di vedere il film, oppure ad una Carmen di Bizet in cui non è più Don Josè ad uccidere la protagonista con un pugnale, ma è l’opposto, perché bisogna distruggere l’idea di patriarcato, sostituendola con quella di liberazione femminile. Annibale sarà presto rappresentato come un generale di chiara origine centroafricana, quando storicamente è più facile che avesse occhi azzurri e capelli biondi, come la maggior parte degli appartenenti alle tribù berbere dell’odierno Maghreb.
Nel 1968 uscì una canzone intitolata “Angeli negri” cantata da Fausto Leali. Se ricordate diceva: “ Pittore, ti voglio parlare/Mentre dipingi un altare/Io sono un povero negro, ecc…”, sebbene il testo sia dichiaratamente apologetico, oggi solo perchè contiene quella parola, non potrebbe essere passata per radio. Se potessimo fare esempi, partendo da quello che vi ho proposto in apertura, potremmo davvero divertirci per ore a trovarne di nuovi, rafforzando l’idea che, secondo me, questa generazione ha paura di confrontarsi con le parole e le immagini, perché non ha davvero la forza di capirle, di interpretarle e dar loro il giusto significato. Giunge addirittura a formarne di nuove, forzando la nostra millenaria grammatica, che sicuramente tra non molto dovranno essere sostituite perchè non avranno più la forza di reggere il peso che si portano dietro.
“Una poltrona per due” è un film che, al contrario di quanto si insinui in quell’articolo, vuole denunciare l’ipocrisia di una società in cui certe categorie di persone vengono etichettate e lo fa usando le sue stesse armi: il razzismo, la discriminazione, l’emarginazione, il cinismo del capitalismo sfrenato tipico degli anni in cui venne girato. Billie Ray “Valantine” dimostra che pur essendo nero ed emarginato dalla società può valere quanto, se non più, dei due Due and Duke messi insieme. Ophelia dimostra a Louis Winthorpe III che,, pur essendo una prostituta, può amare quanto se non più,, di Penelope Witherspoon. Louis, Billie Ray, Coleman e Ophelia sono i protagonisti di una ascesa sociale resa possibile solo grazie all’unione che mette da parte tutte le differenze che fino a poco prima li separavano.
Questo è il vero messaggio del film e non ci vedo nulla di male se i protagonisti si prendono un po’ in giro usando parole proibite o stereotipi di genere e di “razza”, perché ridere un po’ di se stessi non ha mai fatto male a nessuno.