Attualmente sono possessore di un’automobile dotata di comodissimi optional di serie che facilitano indubbiamente la guida: ABS, cambio sincronizzato a sei marce, sedili e sterzo regolabili, air bag, limitatore di velocità, sensori di parcheggio, schermo touch screen da non so quanti pollici, bluetooth e una serie di altre diavolerie che non starò a descrivere anche perché sono convinto che siano perfettamente inutili. Talvolta, specie quando viaggio da solo in autostrada, mi vien fatto di pensare, così, per ingannare il tempo, alle macchine che ho avuto e con le quali ho condiviso i miei tanti anni di guida: le mie adorate Multiple, le Volvo, letteralmente finite dai lunghi viaggi settimanali nei tre anni di lavoro a Bolzano o di quelli giornalieri nei tre anni di Genova, e poi Clio, Punto, Y10, R8, R9,R14, Panda, la Golf con il suo moderno motore Diesel, ed ancora il 128, il 126, le due 500 ed il primo amore automobilistico: la Seicento.

A quel tempo, parlo del 1966, abitavamo a Torino: sposati da pochi mesi, avevamo impegnato parte dei nostri stipendi per metter su casa. Non ricordo bene quante cambiali ho firmato, comunque allora avevamo cucina a gas con forno, frigorifero, lavatrice, mobili per la camera da letto e tinello ed infine il televisore. Durante la settimana ci si spostava a piedi o con i comodi tram per andare al lavoro, il sabato era dedicato alla spesa settimanale ed alle pulizie a fondo della casa e la domenica a lunghe passeggiate nei parchi del lungo Po, spingendo il passeggino dove dormiva serena la nostra prima figlia. Torino a quel tempo era una città che, nonostante arrivassero ogni giorno cinquecento persone dal sud, riusciva a dare lavoro a tutti e si respirava nell’aria, oltre allo smog, quel profumo di progresso e la certezza che, giorno dopo giorno, il futuro sarebbe stato migliore. La FIAT ed il suo indotto assorbivano quasi interamente la mano d’opera disponibile al punto che la SIP, per la quale lavoravo, essendo i servizi telefonici in grande espansione, faticava a trovare le maestranze necessarie. La domenica Torino si svuotava: chi poteva prendeva la macchina per andare a respirare un po’ d’aria pura al mare, in montagna o semplicemente a calpestare un po’ d’erba su un prato fuori città la quale restava a disposizione dei non automuniti quali noi eravamo.

Passarono così due anni, già in possesso da tempo di patente che avevo preso per motivi di lavoro, le cambiali onorate, decidemmo che la prossima spesa dovesse essere l’acquisto di una macchina, magari piccola, usata, poco cara, ma che ci permettesse di muoverci con maggior autonomia ed evitare i viaggi nei treni strapieni, ogni volta che si decideva di tornare nei luoghi natii. E proprio in quel momento trovammo la nostra prima macchina: una Fiat seicento seconda serie del 59 targata MS 10913 con 90 mila chilometri già percorsi, di un improbabile e consunta vernice blu con sfumature violacee, gli interni in similpelle rossa, qualche piccola chiazza di ruggine, ma che, insomma, funzionava ancora egregiamente e dal prezzo interessante: 90 mila lire, poco meno del mio stipendio mensile. Che dire? Fu amore a prima vista.

Non ricordo bene perché decidemmo di chiamarla Geppina o più familiarmente Geppy, forse per un’assonanza con la famosa Jeep, macchina versatile ed indistruttibile dell’esercito americano, ma da quel momento quello fu il suo nome: per noi lei non fu mai” la macchina”, bensì la Geppy. Gli spostamenti Torino Massa e viceversa, che avvenivano saltuariamente o in occasione delle ferie, non erano viaggi, ma avventure vere e proprie. All’epoca, l’unico pezzo di autostrada percorribile era la camionabile, oggi A7, nel tratto da Genova Sampierdarena a Serravalle Scrivia, il resto era Aurelia o strade statali del Piemonte. Su quelle strade, che erano le più trafficate, si trovava, ad ogni piè sospinto, un camion con rimorchio, in tutto 19 metri, il cui sorpasso ogni volta era un piccolo problema, perché, in pianura, la Geppy disponeva di una potenza di soli 22 cavalli, ma diventava un serio rischio sulle strade di montagna. Sui 16 chilometri del famigerato Bracco bastava che due camion si accodassero ed i sorpassi diventavano impossibili; si formavano così lunghe code che si risolvevano solo quando la Polizia Stradale, quasi sempre presente in verità, bloccava i camion per permettere il deflusso delle macchine. Il viaggio durava in media dalle sei alle otto ore, ma non era certo un problema: eravamo autonomi e il motore di Geppy ronzava alle nostre spalle che era un piacere sentirlo.

Facevamo delle piccole soste per la bambina e poi via di nuovo verso la meta tranquilli e certi che Geppy non ci avrebbe mai lasciato a piedi. Siccome il consumo dell’olio era un po’ elevato, decidemmo, prima di uno di questi viaggi, di cambiare le fasce elastiche dei pistoni. “Mi raccomando – ci disse il meccanico – non superate i sessanta chilometri l’ora, fate finta che sia un rodaggio”. E così, alle sei di sera di un 31 luglio partimmo per Massa (la bambina era già dai nonni da una settimana), stando bene attenti alle raccomandazioni del meccanico. Il tempo di viaggio ovviamente si allungava parecchio, ma la cosa non ci spaventava, ogni tanto una sosta, molte chiacchierare, qualche progetto per il futuro e spesso un canto a due voci. Ricordo, a tal proposito, una canzone di Anna Identici che faceva così “Quando m’innamoro io do tutto il bene a chi è innamorato di me…” canzone che rispecchiava appieno il nostro sentimento reciproco durato una vita e che negli anni abbiamo spesso cantato di nuovo, ricordando quel tempo e paragonandolo con il benessere raggiunto. Per la cronaca il viaggio durò dieci ore e Geppy ci fu grata di non averla forzata troppo, tant’è che ci portò a spasso, talvolta su lunghe strade impervie e sterrate quali la strada militare della Conca Cialancia fino a 2500 metri di quota, ancora per due anni. Poi la ruggine, difetto tipico delle macchine italiane, ne corrose pian piano la carrozzeria fino a renderla poco sicura e così decidemmo di venderla. La comprò per 40 mila Lire un meccanico al quale serviva un motore da sostituire su un’altra seicento. Beh, forse non ci crederete, ma il pensiero che il motore della nostra fedele Geppy continuasse a ronfare su di un’altra macchina per chissà quanti altri chilometri riuscì, in qualche modo, a mitigare il dispiacere della vendita.