Ho scritto recentemente un breve articolo su come l’uso smodato dello smartphone stia condizionando, quale sottile droga, la nostra vita ed in particolare quella dei nostri ragazzi. Da lì è nata la riflessione, facendo un paragone con il nostro vissuto nel dopoguerra, che esalta la fantasia che sapevamo impiegare nell’inventare nuovi giochi che ci vedevano come protagonisti attivi. Eppure, ripensando al passato, anche noi abbiamo avuto la nostra sottile droga che, settimanalmente, ci faceva dimenticare ogni altro tipo di svago: la lettura dei giornalini, oggi si direbbe le strips, a fumetti.

Oh se ne eravamo affascinati! Forse come i nostri padri erano cresciuti a pane e letture di Emilio Salgari con i vari Sandokan, Corsaro nero, pirati della Tortuga, così noi attendevamo con ansia l’uscita in edicola dei nostri eroi per leggerne le rocambolesche avventure. Unico problema: costavano soldi, e siccome di quelli non si poteva disporre, non restava che sperare nell’amico più fortunato che ci passasse il suo giornalino, una volta letto, oppure, più dignitosamente, dovevamo trovare il denaro per acquistarlo. Fortunatamente, almeno per noi, il ferrovecchio aveva un buon mercato e così in tre o quattro amici si costituiva una piccola cooperativa e si partiva alla ricerca di ferraglia, in genere vecchio filo elicoidale o altri rottami ferrosi che trovavamo, trascinati dalle piene, lungo i torrenti. Con il nostro carico settimanale si andava dalla Carò che aveva un magazzino per la raccolta di stracci, carta e ferrovecchio in Piazza San Francesco, allora si chiamava così, angolo via Verdi. La Carò, forse Carolina, la ricordo come una donna sempre vestita di nero seduta accanto ad una grossa bilancia che, prima di farci entrare, ci apostrofava in dialetto con tono sospettoso: “’I avet robati?” e ottenuta risposta negativa, procedeva alla pesa della merce e quindi, seria, seria – ma si vedeva che gli occhi le sorridevano – al pagamento del dovuto. In genere ci procuravamo venti o trenta lire che bastavano per comperare un fascicolo, subito divorato con gli occhi, per rileggerlo, gustandolo poi con calma nei giorni successivi.

Nembo Kid, conosciuto più tardi come Superman, venuto infante dallo spazio, adottato dai coniugi Kent che, una volta scoperti i superpoteri di cui era dotato, lo convincono ad usarli per sconfiggere il male.

Batman, l’Uomo Pipistrello che, sconvolto per aver assistito, da piccolo, all’assassinio dei genitori, giura di combattere malfattori ed assassini dovunque si trovino usando, affiancato dal fedele Robin, la sola forza del fisico ben allenato e dell’intelligenza fuori del comune.

Come resistere, poi, alle imprese di Mandrake il mago illusionista che con la sua magia e l’aiuto del fedele servitore Lothar riusciva a fare cose impossibili e famoso al punto che ancor oggi, quando viene richiesta una cosa difficile, la risposta immediata è: “Mica sono Mandrake!”.

E che dire dell’Uomo Mascherato conosciuto anche come “L’ombra che cammina”, un eroe in calzamaglia che risiedeva nella Grotta del Teschio situata nell’isola di Eden, in Africa, con i suoi fedeli pigmei Bantar.
Questi fumetti arrivarono in Italia dopo la guerra, in quanto di produzione americana, ma, dagli inizi degli anni cinquanta, iniziarono ad apparire fumetti frutto della fantasia di autori italiani.

Cominciamo con Il Grande Blek ovvero Blek Macigno, un gigantesco trapper con in testa un cappello di marmotta che lottava per l’indipendenza americana scontrandosi di continuo con gli odiati inglesi; suoi partner il piccolo Roddy e l’esimio dottor Cornelius un colto e raffinato e simpatico truffatore.

Prima ancora, nel 1951 uscì la striscia di “Capitan Miki”, un giovane ranger del Nevada, infallibile con la sua colt ed abilissimo nel corpo a corpo, che con l’aiuto di due bei tomi, Doppio Ruma ed il dottor Salasso, riusciva sempre a far trionfare la giustizia.

Ma l’eroe, il vero eroe, ideato da Bonelli e Galleppini nel 1948 e tutt’ora pubblicato, è e rimane Tex Willer, Aquila della notte”, un ranger del Texas e capo indiscusso di tutte le tribù dei Navajos accompagnato nelle sue innumerevoli missioni da Kit Carson, dal figlio Kit e dall’inseparabile Tiger Jack un fiero guerriero navajo e suo fratello di sangue.
Le avventure di tutti questi personaggi erano legate da un unico leitmotiv: la guerra infinita del bene contro il male, che si concludeva inevitabilmente con la vittoria dei nostri eroi. Poiché a quel tempo non esisteva ancora la televisione e tanto meno la play station, i fumetti, così chiamati perché i dialoghi venivano circoscritti dal disegnatore in una specie di nuvola che usciva dalla bocca dei protagonisti, erano il mezzo ideale per scatenare, talvolta oltre misura, la nostra fantasia. Certamente avremmo voluto anche noi, come avviene ora con i telefonini, leggerli anche a tavola, ma allora bastava un’occhiataccia del babbo, che stava a significare “a tavola ci si riunisce per mangiare, dialogare e soprattutto per ascoltare”, per riportarci subito sulla retta via della buona educazione.
Vecchi cari fumetti a volte ripenso a loro con nostalgia, ma, forse, questa è solo nostalgia di un tempo in cui ci bastava veramente poco per essere felici.