seconda e ultima parte
Il mattino dopo Giovanni Carli, il calzolaio, fu selezionato in una squadra di cinquanta persone addette alla costruzione di trincee, binari e baracche. Erano vestiti con indumenti leggeri e ai piedi avevano solo degli zoccoli di legno che poco potevano proteggerli dalle temperature che scendevano fino a 20, 25 gradi sotto zero. Le infami condizioni di vita lo ridussero a pesare solo 38 chili e fu anche grazie all’aiuto dei polacchi che abitavano nella zona che riuscì a sopravvivere. Un giorno, incontrò un abitante del luogo, che già altre volte lo aveva aiutato, e con lui organizzò lo scambio di ben 20 chili di pane con un orologio Zenith che portava al polso. Nascose quel piccolo tesoro, se lo razionò e forse fu proprio quello che, insieme alla sua fede, lo aiutò a sopravvivere. Dopo tredici mesi di stenti, Giovanni fu colpito da un’infezione che arrivò a coprirgli tutto l’occhio, la mancanza di trattamento medico gli procurò una febbre alta che lo inibì al lavoro. Fu mandato in infermeria, dove solo la sua forza di volontà e le preghiere alla Madonna, gli consentirono di guarire, ma la sua forma fisica era gravemente compromessa tanto che una mattina, durante il contrappello, venne escluso da un medico, dalle squadre di lavoro, cosa che, in un campo di lavoro, poteva determinare la vita o la morte di un prigioniero. Grazie all’intervento di un dottore particolarmente sensibile, fu riammesso in una squadra, addetta, però, ai lavori in una fattoria. Qui riconobbe un suo commilitone dei tempi di Torino, il quale lo informò che nel campo esisteva un laboratorio per la produzione di suole per gli stivali dei soldati. Riuscì ad avere un colloquio con il maresciallo che dirigeva il laboratorio a cui dimostrò la sua abilità nel lavorare il cuoio e venne accettato come calzolaio. Questo comandante lo prese in simpatia e lo fece andare a pulire la casa che aveva fuori dal campo, permettendogli di avere una qualità di vita migliore, avendo accesso a un cibo e ad uno standard di vita migliore di quello di prima. Carli scoprì anche l’esistenza di un fiorente mercato nero, a cui prendevano parte anche le guardie stesse del campo. In una baracca esisteva addirittura un “supermercato” clandestino, dove era possibile trovare zucchero, marmellata e sigarette americane.
La situazione bellica stava però cambiando e presto i tedeschi dovettero cedere alla pressione dei russi, che, da est cominciavano a respingerli indietro. I nazisti decisero di trasferire tutti i prigionieri e nel campo in cui era Giovanni Carli cominciò a girare la voce che sarebbero stati mandati ad Odessa dove le navi catturate venivano smantellate per trarne pezzi di ricambio e altro materiale utile. Invece vennero spostati a Graudenz, sempre in Polonia, all’interno di un campo di prigionia ricavato da una ex caserma militare. Non appena i russi arrivarono lì i tedeschi, per non consegnare i prigionieri, cominciarono a massacrarli arrivando ad ucciderne diecimila. Quando Giovanni Carli rilasciò questa intervista era il 2011 e lui aveva 91 anni, per cui è più che comprensibile che i ricordi si facessero più deboli. Nel suo racconto non fu chiarissimo come i pochi superstiti passarono dalla prigionia tedesca ad una cattività russa: “Quando i combattimenti diminuirono – proseguì Giovanni – camminammo nelle montagne e vedemmo come le avanzanti truppe russe, avessero bruciato grandi aree di bosco coi lanciafiamme. Nei boschi c’erano cadaveri dappertutto. Non avevo mai visto una cosa del genere, era una cosa veramente malvagia. Ci misero in cantine di case vuote e ci nutrirono con cucchiai di fagioli attraverso le grate. Morivamo di fame e passavamo il tempo giocando a scacchi. Un giorno il generale Timochenko arrivò con le guardie del corpo a bordo di macchine blindate. Vide la nostra bandiera e chiese con rabbia: “Abbiamo ancora dei fascisti qui?” Tre giorni dopo cominciammo a camminare e così continuammo.”
Cominciò così il lungo cammino per tornare a casa: arrivarono a Varsavia e vennero riuniti in un ospedale: “Ci diedero da mangiare della zuppa che consisteva in un litro di brodo di rape e del pane, ma questo era impastato con la crusca e ci graffiava la gola”. Ripresero la marcia verso sud arrivando ad Innsbruck, dove furono fermati dagli americani che, un volta riuniti e controllati, li disinfettarono e li trattennero per due giorni, poi, li misero su dei treni in direzione Vienna. “Quando vidi Vienna pensai di essere su di un altro pianeta. Avevano macchine come la Balilla e la Topolino in Italia ed un sacco di lussi che non avevo mai visto… A Vienna ci misero su dei treni che tornavano in Italia. Quando arrivammo in Italia, dove fummo trattati come eroi, gli altoparlanti della stazione di Aulla suonarono musiche di gioia per darci il bentornato.”. Arrivato ad Aulla, gli americani smistarono il gruppo per far giungere ognuno al proprio paese, e lui, essendo già nella sua città, dovette arrangiarsi ad arrivare a casa grazie ad un carrettiere di una frazione vicina al suo paese, che si trovava lì per caso. Continuò il suo percorso con un taxi, una Fiat Balilla, che lo portò fino a Fivizzano. Bussò alla porta della bottega di un vinaio, dove fu riconosciuto e rifocillato. Da quel punto dovette continuare a piedi e nel buio della notte camminò fino ad arrivare a casa sua a Sassalbo, una piccola frazione a due passi dal confine con la provincia di Reggio Emilia. Guadato un piccolo torrente, si infilò tra le vie del borgo dove, scorto un paesano che fumava la pipa sui gradini di casa lo salutò, dicendogli “Come stai Beniamino?”.
Catturato l’8 settembre del 1943, Giovanni ebbe la fortuna di tornare a casa il 10 ottobre del ’45. Per i suoi compaesani fu una gioia enorme rivederlo, specie per il fatto che le uniche notizie disponibili lo davano disperso o al massimo prigioniero dei tedeschi. Tutto il paese lo festeggiò e si mosse per aiutarlo a riprendere la sua attività. In breve tempo aprì un negozio di scarpe che è tutt’ora esistente a Fivizzano ed è condotto dal figlio Delio. Giovanni è venuto a mancare nel 2014, pochi mesi dopo essere stato insignito dalla Presidenza del Consiglio della Medaglia d’Oro per i suoi trascorsi di prigioniero; alla fine degli anni ’70, la Federazione dei Calzolai Italiani lo fece nominare Cavaliere del Lavoro.