• Ven. Giu 2nd, 2023

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Il movimento punk, che raggiunse l’apice in Inghilterra alla fine degli anni ’70, pur nella sua breve parentesi, ebbe una forza dirompente tale da influenzare le ere musicali che sono venute dopo. Sono tanti i generi musicali che fondano le loro radici nello stile punk, nel modo capovolto di vivere la musica, nel quale l’artista prende in mano la sua arte, autoproducendosi, facendo un rumore forte, così forte in modo da cambiare le carte in tavola.

Seduti davanti a me Lexy e Ivan della Faida, perchè dopo aver sentito la loro rivisitazione di “Anarchy in the UK” dei Sex Pistols, è  interessante saperne di più. Riporto qui l’intervista fatta loro sul punk e sul testo in italiano di Ivan, che ha fatto nascere la loro “Anarchitaly”.

La storia vuole che i Sex Pistols siano stati costruiti a tavolino. Come vi approcciate  a questa visione?

Lexy: Anche noi abbiamo fatto di considerare i Sex Pistol costruiti a tavolino. Il mondo alternativo, il mondo rock e metal ha i suoi cliché, i suoi idoli da santificare e da demonizzare, la sua “religione”. Poi ascolti attentamente “Nevermind the Bollocks”, magari leggi qualche libro, vedi qualche intervista e vai oltre McLaren, oltre al vulgata ormai resa legge e capisci quanto i Sex Pistols siano stati fondamentali per la concezione di punk, per le band a venire, per il modo di concepire la composizione e di esprimersi artisticamente. I Sex Pistols sono il dionisiaco, il tribalismo, il marcio che va contro una costruzione irrazionale, ma organica, di un certo modo di comporre, di arrangiare, di concepire la musica come qualcosa di elitario, qualcosa che esclude a priori certi modi di fare musica, dunque di esprimere una sensazione.

Dove si sono intrufolati i Sex Pistols, in quale parte di società?

Lexy: I Pistols, in questo senso, dissacranti, hanno totalmente minato il concetto borghese-decadente dell’art pour l’art, di quella ricerca formale e stilistica così vuota, così fine a se stessa, così simile a Schopenauer, che si ritira nelle sue stanze private e crede che il mondo sia un’illusione. I Pistols sono stati l’avanguardia che, dopo il rock n’roll dei neri degli anni ’50, ha reso l’arte  qualcosa di imponderabile e al tempo stesso di tangibile, un vero e proprio fatto sociale, un prodotto sociale che non nasconde il suo essere sociale. Tralasciando le inutili discussioni da sociologi un po’ improvvisati, è oggettivo che persone della working class abbiamo potuto esprimersi in maniera diretta, con linguaggio della working class, per la working class e contro la monarchia inglese, contro l’Inghilterra intesa in un certo modo, con la musica.

Qual è il tratto fondamentale dell’eredità artistica dei Pistols, per le band dopo di loro, compresa la vostra?

Lexy: A loro modo è stata davvero una rivoluzione, fallita magari, ma una rivoluzione, perché, in controtendenza con certi discorsi puristi, per cui la musica sembra qualcosa che non faccia parte di questo mondo, i Pistols hanno messo in musica il mondo, il loro mondo inteso come ambiente sociale, esistenziale, individuale e collettivo: senza la società la musica non esiste, e noi vogliamo squarciare il velo di ipocrisia su una presunta natura trascendente della musica. Questo hanno fatto i quattro ragazzi inglesi (cinque contando anche Vicious): hanno reso umano, hanno reso tangibile, hanno reso per tutti un qualcosa che stava diventando per pochi. Motorhead, Guns, The Clash: l’elenco di persone che hanno iniziato a suonare perché rivedevano nei Pistols il quartiere, la periferia, il centro sporco, è infinito. La lezione materialista, in senso filosofico, dei Pistols, è stata quella di rendere nuovamente la musica un fatto corporale: l’hanno resa di sangue e polvere. L’aspetto grandioso dei Pistols riguarda il loro aspetto non strettamente musicale, nonostante anche a livello musicale, abbiano prodotto una pietra miliare della musica. L’arresto, le coltellate dai monarchici, suonare sul Tamigi nell’anno del Giubileo della Regina: hanno spaccato l’opinione pubblica, hanno fatto riflettere, hanno creato scompiglio, hanno prodotto movimento, hanno evidenziato le contraddizioni della società con atti sociali. In sintesi, sono stati artisti nell’espressione complessa e completa del termine, non meri esecutori, non meri musicisti, ma hanno squarciato il velo, scosso la terra: hanno prodotto storia, hanno fatto la storia e non per il pettegolezzo, non per quel trito clichè del rock, ma per l’anima profonda per cui è nato il rock, un qualcosa di sociale, che ha a che fare col collettivo, coi diseredati, con le storie di gente comune, per la gente comune. Dei veri e propri cantautori con chitarre distorte e up tempo.

Veniamo ora ad Anarchitaly e al testo di Ivan, cosa volete esprimere?

Lexy: Uno sfogo, un grido di rabbia, sempre con sarcasmo, contro una certa Italia piccolo-borghese, che rende la musica un oggetto da collezione nel salotto, che la uccide con un collezionismo celodurista, che è totalmente contrario rispetto a quello che gli stessi album raccontano. Contro la nostalgia, come atto rivolto al passato, contro ogni tentativo di mettere la musica in una teca e dire “è finita in questi anni”. A noi, questa gente sta sui cosidetti. Queste persone sono reazionarie, sono quelle che non permettono a tante giovani band di emergere. Sono quelle che si lamentano se una band emerge, perché non suona come i Led Zeppelin, anzi, perché non sono i Led Zeppelin. Dei monaci di clausura del rock. Abbiamo scritto questa canzone contro chi crediamo sia uno dei problemi principali per il rock in Italia, e cioè quelli che combattono con critiche infondate, con sprezzante giudizio, il nuovo che avanza. A quell’immobilità falsa, contro natura, preferiamo il ritmo della strada, vero specchio di una natura e di una storia che cambia, si evolve, di cui possiamo essere il cambiamento, e non  una fredda chiesa in cui tutto è già scritto, anche il nostro destino: il destino di generazioni di musicisti. Questa è la lezione metodologica che il punk ci ha insegnato, e noi ci sentiamo punk, in questo senso.

Ivan: Abbiamo voluto dare una risposta ai critici e ai maestrini da tastiera, che restano ancorati ad un periodo passato, criticando a prescindere il nuovo. Il punk è rivoluzione e ribellione, il punk ha con sè una trasgressione con le parole molto forte. Con il nuovo testo ho anche voluto, in un certo modo, prendermi gioco anche dei fan sfegatati dei Sex Pistols, che potranno dire, per esempio, che abbiamo rovinato una canzone iconica, quasi sacra, quando invece abbiamo solo seguito lo spirito di un genere musicale, per denunciare le nostre difficoltà del momento, che non possono essere quelle degli anni ‘70.

Link al brano Anarchitaly:

https://fb.watch/jn26uYiP8I/