OLTRE|FRONTIERA
Destinazione: Ghiacciaio Twaithes, Antartide Occidentale
Coordinate: 75°30′S 106°45′W
Distanza da Firenze: 15.535 Km
Di solito l’ingrato destino di scoprire un luogo, e non poterci mettere piede, spetta agli astrofisici, instancabili scrutatori degli abissi siderali. Qui, sulla Terra, questo non succede quasi mai: nel senso che, a parte qualche eccezione, tutti i posti conosciuti sono stati esplorati fisicamente, e riportano una toponomastica collegata, in modo più o meno diretto, a chi li ha scoperti e vi ha mosso i primi passi. Una di queste eccezioni è il ghiacciaio Twaithes, il più grande del mondo. Questo colosso di ghiaccio, grande come la Gran Bretagna, deve il suo nome ad un emerito glaciologo statunitense, ma né lui, né altri, avevano mai toccato la sua immacolata superficie. Almeno fino al 2019.
Cinque anni prima due ricerche diverse ed indipendenti avevano dimostrato, senza ombra di dubbio, che il Twaithes stava collassando. Da quell’annuncio in poi, è partita la più grande e costosa spedizione di ricerca mai effettuata in Antartide: l’International Twaithes Glacier Collaboration (ITGC), 200 persone, nove progetti diversi, per un costo totale di 60milioni di dollari.
Niente in confronto a quanto verrà sperperato nei prossimi anni per spedire l’uomo su Marte o, peggio ancora, per tornare sulla Luna. Il nostro satellite e il grande pianeta rosso non hanno risposte ai nostri problemi. Come potrebbero averle, del resto. Nella sua dimensione romantica, la colonizzazione extraterrestre è materia che alimenta i nostri sogni e gratifica la nostra indole di specie che vuole e può andare oltre i propri limiti fisici; in quella più pragmatica e realista, essa non è altro che il disperato tentativo di trovare nuove risorse da sfruttare. Quale che sia il punto di vista dal quale si vuole vedere la cosa, l’esplorazione spaziale non ha rilevanza per il futuro imminente del nostro pianeta, e sottrae risorse agli immani costi – umani ed economici – che dovremo affrontare, come civiltà, nel tentativo di porre rimedio agli stravolgimenti in atto, o nel titanico sforzo di non soccombere alle loro conseguenze, ove uno o più tipping points, o punti di non ritorno, della crisi climatica vengano superati. Il Twaithes è l’emblema di questa situazione: lì, il punto di non ritorno è già stato superato.
A differenza di altri rischi ambientali, per i quali manca univocità di pareri e valutazioni, sul fatto che il Twaithes si scioglierà, non v’è più dubbio alcuno. Si tratta solo di capire quando succederà e in che misura. Nel 1968 un eccentrico geografo inglese, John Mercer, affermò che i ghiacci perenni dell’Antartide occidentale non erano poi così perenni, perché c’era la reale possibilità che si sciogliessero facendo salire di sei metri il livello del mare. Dieci anni dopo rincarò la dose, affermando che lo scioglimento sarebbe dipeso dall’effetto serra provocato dalle attività umane. Entrambe le intuizioni furono liquidate come deliranti dalla comunità scientifica. Fu però un ricercatore del Maine, Terry Hughes, ad individuare esattamente l’anello debole dell’Antartide. Egli era certo di averlo trovato in un ghiacciaio insolitamente vasto, situato alla base della penisola antartica che, per grandezza e conformazione, impediva al ghiaccio dell’intera parte occidentale del continente bianco di sciogliersi e defluire in mare, comportandosi come una sorta di tappo. Il ghiacciaio a cui si riferiva era quello che, in seguito, verrà chiamato Twaithes. Come detto, oggi sappiamo con certezza che Mercer prima, e Hughes dopo, avevano ragione; ma la dinamica che sottende al progressivo scioglimento del Twaithes è molto complessa, e pur intuendone felicemente i contorni, i due scienziati non avevano gli strumenti per sapere quello che sappiamo oggi.
Diversamente dai ghiacciai montani, che si sciolgono a partire dall’alto, a causa della temperatura dell’aria, il Twaithes si sta sciogliendo dal basso, a causa dell’acqua “calda” – vale a dire ad una temperatura appena superiore al punto di congelamento – che scorre sotto di esso. Ma come è possibile questo, se è vero – com’è vero – che il ghiaccio antartico poggia sulla terraferma? La risposta sta nella particolare morfologia dell’Antartide occidentale. Qui la pendenza del terreno è retrograda, cioè aumenta via via che ci si spinge verso l’interno, come in una gigantesca scodella, arrivando alla profondità di 1500 metri sotto il livello del mare, in corrispondenza del suo centro. In questo punto lo spessore del Twaithes è maggiore, e il suo peso spinge grandi quantità di ghiaccio oltre il bordo continentale, formando un’enorme lastra di ghiaccio galleggiante, ma ancorata alla terraferma. Per centinaia di milioni di anni l’Antartide è stato protetto dalla corrente circumpolare antartica, una specie di muro di acqua freddissima, che ha costituito una barriera insormontabile per le correnti marine più “calde” provenienti da nord, e che ha preservato l’integrità della piattaforma galleggiante del Twaithes e di tutti gli altri ghiacciai di questa parte del continente. Ma, adesso, il cambiamento climatico ha alzato sensibilmente la temperatura delle correnti, e in quel muro si è aperto un varco, proprio in corrispondenza del Twaithes. Ed ecco quello che sta accadendo: le acque più calde lambiscono il continente, il ghiaccio si scioglie e perde aderenza; contemporaneamente esse erodono la base della piattaforma, e si insinuano sempre di più verso l’entroterra, favorendo il distacco del ghiaccio e il suo scivolamento verso il mare, dovuto alla forza che il ghiacciaio esercita dal centro. Questo processo è considerato ormai irreversibile da tutti gli esperti, e il Twaithes, alla fine, si disintegrerà aprendo la strada allo scioglimento dell’intero Antartide occidentale.
Il valzer delle cifre e dei calcoli sul numero di anni che ci separano da questo scenario, e sulla reale portata dell’innalzamento dei mari che ne consegue, è materia per l’agone scientifico e per gli sceneggiatori di Hollywood. In questa sede, si è voluto soltanto evidenziare l’eccezionalità della ricerca in corso, il cui scopo è quello di studiare da vicino le variabili di una catastrofe già in atto, non differibile, e dalle proporzioni ignote. Forse gli unici ad essere stati sfiorati, per un momento, dal brivido pionieristica fine a se stesso, sono stati il glaciologo Martin Truffer e la sua squadra, quando, il 13 dicembre del 2019, hanno messo piede, primi al mondo, sul ghiacciaio da cui dipende come e dove vivranno le generazioni future. Ma l’emozione deve essere durata ben poco: in un posto dove si scatenano tempeste talmente violente che non riesci a vederti le mani se allunghi il braccio, dove si formano all’improvviso crepacci capaci di inghiottire un palazzo di dieci piani, e dove il freddo arriva a toccare i settanta gradi sotto lo zero, il tempo per crogiolarsi nell’eccitazione della scoperta, è scarsissimo. In sole cinque settimane, dovevano montare le due tonnellate di materiale scientifico e logistico, paracadutato sul posto qualche giorno prima, e poi procedere con la missione vera e propria: e cioè fare un buco nel ghiaccio lungo quattrocento metri con una trivella ad acqua calda, per raggiungere il bordo inferiore della piattaforma del Twaithes e misurare la temperatura dell’acqua sottostante.
E cosa deve aver pensato l’oceanografa Anna Wåhlin quando la nave rompighiaccio ha portato lei e il suo sottomarino robotizzato, così vicina al fronte del ghiacciaio, che quasi poteva toccarne la parete? Una vita di studi, ricerche, conferenze, senza mai averlo visto, neanche da lontano. Ed ora, eccolo lì, a pochi metri: una delle più grandiose manifestazioni della potenza della natura, destinata a scomparire: fragile quanto imponente, bellissimo quanto inquietante.
Non c’è gloria per il lavoro di questi uomini e donne, nessuno si ricorderà di loro tra duecento anni, ma se lo scioglimento del Twaithes avrà un impatto meno catastrofico di quanto potrebbe, un po’ sarà anche merito loro.
Fonte: Internazionale, Wikipedia