• Mer. Giu 25th, 2025

Diari Toscani

Giornale di cultura, viaggi, enogastronomia e società

Questa settimana andiamo a: Zhengzhou, Cina

Coordinate: 34°45′50″N 113°41′02″E

Distanza da Firenze: 8.279 km

La foto che sto guardando, mentre mi appresto a scrivere l’articolo di questa settimana, è ripresa dall’alto, probabilmente con un drone. Si vede un nutrito gruppo di persone che occupa un tratto autostradale, poi una fila di pullman, fermi sulla corsia d’emergenza, e degli uomini in tuta bianca tutt’intorno. Se non fosse per quest’ultimi, a prima vista, sembrerebbe l’istantanea di un corteo di manifestanti, che hanno invaso pacificamente una strada. Ma non si tratta di questo. La storia da cui scaturisce questa fotografia, è clamorosa e senza precedenti.

Nel distretto industriale di Zhengzhou, in Cina, sorge uno stabilimento dove si producono, su scala planetaria, dispositivi elettronici “consumer” per l’intrattenimento: vale a dire smartphone, tablet, consolle e simili. Vi lavorano più di 200 mila persone, ed è di proprietà della Foxconn, una multinazionale taiwanese. Il cliente principale della Foxconn è la Apple. Dalle linee di produzione del mega impianto di Zhengzhou, esce più del 70 per cento degli IPhone venduti nel mondo, nonché la stragrande maggioranza di tutti gli altri prodotti del catalogo Apple. Il posto è talmente enorme, che ci vuole più di un’ora per andare e tornare dai vari settori ai dormitori, dove trova alloggio, soprattutto, il personale assunto a chiamata e a ore. Quando l’azienda assume, e ciò avviene principalmente nella seconda metà dell’anno, offre anche contratti a tempo pieno, ma quelli ad intermittenza hanno tutta una serie di vantaggi (bonus trimestrali, paga mensile più alta, assicurazioni e sussidi), e sono i preferiti dai lavoratori più giovani.

Al rientro delle vacanze del 1 ottobre, anniversario della nascita della Repubblica Popolare Cinese, lo stabilimento è a pieno organico, sempre in funzione, con due turni di 12 ore l’uno. Nonostante questo, a tutti i dipendenti vengono continuamente richiesti straordinari. Il 9 ottobre, comincia a girare la voce che un operaio del settore L è risultato positivo al test molecolare del giorno prima. Non essendoci comunicazioni ufficiali, nei giorni immediatamente seguenti, i lavoratori continuano l’attività normalmente, credendo che tutto sia sotto controllo. Ma le cose sono destinate a peggiorare. E anche molto rapidamente. Il 14 ottobre iniziano le misure restrittive. La prima iniziativa di contenimento è la costruzione di uno stretto corridoio delimitato da sbarre di ferro, che i lavoratori devono obbligatoriamente percorrere per arrivare ai loro settori, rendendo il trasferimento enormemente più lungo.

Il giorno dopo l’azienda comunica che l’accesso alla mensa è interdetto. La pausa è così riorganizzata: i lavoratori avrebbero ricevuto un cestino per il pasto, da consumarsi nei dormitori, per poi tornare al lavoro, percorrendo il corridoio altre due volte; per rendere praticabile e più “accettabile” la profilassi, la pausa sarebbe stata allungata a quasi tre ore, e il disagio “premiato” con un rimborso di 50 yuan al giorno. Neanche il tempo di rodare la nuova misura, che ne entra in vigore una nuova, ancora più restrittiva. Il 16 ottobre cominciano i confinamenti negli alloggi, e le linee di produzione si svuotano. I lavoratori cominciano ad impaurirsi, perché molti colleghi non sono più alle postazioni, e nessuno dice loro niente. Per quando se ne sa, potrebbero essere già tutti in rianimazione, o morti.

Il nervosismo sale di giorno in giorno: i litigi tra colleghi, e tra colleghi e superiori, aumentano in frequenza ed intensità. Si diffonde la netta sensazione che la sicurezza non sia più garantita, e che l’azienda si sia fatta trovare completamente impreparata, per quanto incredibile possa sembrare la cosa. Chi è confinato deve lasciare i rifiuti e i pasti avanzati nel corridoio, ma nessuno passa a pulire.  Dopo qualche giorno, addirittura, i pasti non vengono neanche più consegnati. I corridoi si trasformano in una discarica. Dovunque ci sono cumuli di immondizia che marcisce ed appesta l’aria. Sembra di stare in una township sudafricana, tra lo sporco e il fetore onnipresenti, invece che in un luogo dove si produce altissima tecnologia. Alcuni tornano comunque al lavoro, nonostante ufficialmente siano ancora in isolamento, per ricevere almeno il cestino per il pasto.

Il 26 ottobre l’azienda comunica che non verranno fatti più tamponi. A quel punto tutti capiscono che non c’è abbastanza personale per gestire la prevenzione e, di conseguenza, il rapido diffondersi dell’epidemia: non ci sono dati sui contagi, nessuno sa niente, la situazione sembra essere completamente fuori controllo. Alcuni decidono di tornare a casa a piedi, abbandonando lo stabilimento di nascosto, la notte stessa, attraverso dei varchi nelle reti metalliche di recinzione, che si trovano nei settori più periferici dell’immenso complesso. Ma è una scelta molto rischiosa: se si viene scoperti ed intercettati, si rischia l’arresto e, addirittura, il processo.

Una volta fuori, le distanze da percorrere a piedi sono enormi. I primi fuggitivi le affrontano con la forza della paura e quelle poche cose che, in tutta fretta, hanno potuto infilare negli zaini al momento di partire. Non si può dormire, né riposarsi, almeno non prima di essere fuori dai confini di Zhangzhou, e ci vogliono quasi 20 ore per lasciarsela alle spalle. Le persone che camminano lungo i bordi delle autostrade in uscita dalla città, aumentano di ora in ora. Qualcuno dà loro un passaggio, la storia comincia a circolare sui social. Sul ciglio delle strade appaiono acqua e cibo che la gente lascia per i fuggitivi; si arriva anche ad organizzare degli autobus per aiutarli.