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Diari Toscani

Giornale di cultura, viaggi, enogastronomia e società

La passione per aiutare gli altri: Stefano Guidaci, dalla psicoterapia alle missioni in Africa

DiVinicia Tesconi

Lug 18, 2022

Il tratto che accomuna tutto il denso percorso di vita e di lavoro di Stefano Guidaci, psicologo originario di San Miniato, ma carrarese d’adozione, è la sua vocazione ad aiutare gli altri che comincia con la laurea in psicologia all’università di Firenze e arriva fino alla costruzione e gestione di un orfanotrofio in Kenya. Una vita passata a dare una mano a chi è in difficoltà, senza retorica e con profondo senso pratico, ma soprattutto con un impegno, vero e costante, in prima persona. Stefano Guidaci, 66 anni, padre e nonno, in pensione, continua a fare avanti e indietro dall’Africa per portare avanti la struttura di accoglienza per orfani da lui creata quasi una ventina di anni fa. Da quell’Africa che “gli è entrata nel cuore”, il dottor Guidaci racconterà ai lettori di Diari Toscani racconti di straordinaria umanità e della semplice, cruda realtà di un mondo usato e abusato, troppo spesso, per fingere una solidarietà che appaghi momentanee crisi di coscienza e arricchisca, di fatto, le intoccabili lobby di un no-profit solo di facciata. A breve, su Diari Toscani arriveranno le Cronache dall’Africa di Stefano Guidaci: oggi, invece, ascoltiamo la sua storia.

Quando è nata la passione per l’Africa?

È nata nel 2000, quando un mio collega ottenne un grosso lascito e decise di aprire un ospedale in Kenya, a Malindi. Mi chiese aiuto e collaborazione per trovare sponsor e altri colleghi disposti a collaborare al progetto. Quella è stata la prima volta in cui sono andato in Kenya. Sono rimasto subito folgorato dalla realtà e quando sono tornato in Italia, ho cominciato a sentire il famoso mal d’Africa e mi sono ritrovato a fare avanti e indietro.

Ha mai vissuto in Kenya?

Sì, nel 2005 mi è stato chiesto di fare volontariato in ospedale a Mombasa e io ho accettato restando a vivere lì per tre anni. In quel periodo mi mantenevo suonando il piano in un casinò. Vivere lì mi ha insegnato che gli stranieri a volte vengono un po’ sfruttati, specie se sprovveduti come ero io in quel periodo. Sono stato imbrogliato su alcune cose e mi sono accorto che avrei dovuto stare sempre attento alle pugnalate alle spalle: per questo ho deciso di tornare a vivere in Italia.

Ma non ha smesso di tornare a Mombasa…

No, anzi. Nel 2009 ho aperto un orfanotrofio a Kikambala, una zona a nord di Mombasa. L’ho costruito interamente da solo dal solo. Si chiama Mama Evelyn Ars Hostels ed è dedicato a una paziente che avevo in ospedale, oggi, purtroppo, scomparsa. Fu lei a darmi l’idea dell’orfanotrofio e a farmi conoscere le realtà di Mombasa in cui la gente vive nelle baracche, con un’età media di circa 40 anni.

Il Kenya, grazie al turismo, ha avuto una discreta evoluzione. Come mai la realtà è ancora così drammatica?

Il Kenya è stata una delle mete più sfruttate dal turismo fino al 2007. Da quel momento c’è stata una grande regressione del turismo causata dalle battaglie politiche tra le principali tribù del paese che sono i Kikuyu e i Luo per avere il sopravvento sul governo e i ministeri più importanti. Ci sono state lotte intestine che hanno dissuaso molti turisti dal tornare in Kenya e spinto i tour operator a lasciare il paese a favore di mete come Zanzibar e la Tanzania, considerate più sicure. In Kenya c’è stata quella che loro chiamano la post election violence: insieme alla regressione economica si è instaurata una democrazia parlamentare che, in realtà, è una repubblica presidenziale di tipo dittatoriale, in cui il presidente decide anche per il presidente del consiglio.

Qual è stato il suo percorso professionale in Italia?

Sono nato a San Miniato, ma sono cresciuto a Carrara perché mio padre era un carabiniere e venne trasferito qui. Ho frequentato l’istituto magistrale Montessori di Marina di Carrara. In quel periodo avevo fondato una band musicale che negli ‘70 e ‘80 suonava in giro per locali e discoteche della Versilia e nelle Feste dell’Unità e dell’Avanti. Si chiamava Satirycon. Mi sono laureato in psicologia a Firenze, perché ho sempre sentito il desiderio di aiutare gli altri e poi, mi sono trasferito a Milano dove sono rimasto fino alla pensione. Come psicologo ho lavorato all’ospedale Niguarda, ma ho fatto anche l’insegnante di materie letterarie all’istituto Gonzaga, una scuola gestita dai Fratelli delle scuole cristiane, per 25 anni. A Milano mi sono anche sposato e ho avuto due figli, una che vive ancora lì e un altro che vive a Carrara. Dopo la separazione e la pensione sono tornato a vivere a Carrara.

L’esperienza di psicologo l’ha portata anche in Africa?

Sì, anche se lì la psicologia è ancora molto poco sviluppata. Tra il 2006 e il 2007 in Kenya ci fu un’epidemia di mucca pazza e fu necessario procedere con le vaccinazioni. Siccome all’ospedale non avevano abbastanza persone capaci di somministrare i vaccini, mi chiesero di dare una mano. In quel modo cominciai a collaborare con loro. In seguito, il management dell’ospedale scoprì che ero uno psicologo e mi chiese di tenere dei corsi di base per i giovani medici locali per aiutarli a far capire alle persone di fidarsi della medicina e non continuare a ricorrere ai Muganga, cioè agli stregoni dei villaggi, specialmente in caso di disturbi mentali.

In che lingua comunica con i keniani?

In inglese. Ognuno di loro parla tre lingue: quella della propria tribù, lo swahili che imparano a scuola, e l’inglese.

Con che frequenza va in Kenya?

Più o meno, ogni due mesi. In questo periodo sto cercando di portare avanti un progetto per costruire una fattoria sostenibile, insieme agli sponsor che mi hanno aiuto con qualcuno che mi ha aiutato come sponsor per costruire una fattoria sostenibile. Ho cominciato a riflettere che non siamo eterni e vorrei che questa istituzione che ho creato sopravvivesse a me. Finora sono io che ho provveduto a mantenerla economicamente. Adesso vorrei riuscire a fare in modo che si mantenga anche da sola.

Come funziona l’orfanotrofio che ha costruito?

La struttura è stata edificata sul terreno messo a disposizione dal vescovo della diocesi di Mombasa. Io fui il primo in quella zona. Poi nel corso degli anni ci sono stati altri donatori e oggi ci sono tante piccole strutture che formano una piccola comunità. Ci sono dei donatori irlandesi che hanno costruito sullo stesso territorio e dei donatori svizzeri. In tutto, i ragazzi in quel terreno sono un centinaio. Nella mia struttura sono 21.

Chi sono i ragazzi che ospitate?

Sono orfani. La cosa più rilevante in Kenya è l’età media molto bassa. La gente muore di malaria, di tifo, di difterite, di hiv. Muoiono i genitori e i bambini restano per strada. C’è un team della diocesi di Mombasa diretto dal vescovo e formato da ragazzi locali, con cui io collaboro, che vanno a raccogliere gli orfani sulle strade e li portano nelle strutture. A volte vengono italiani ad aiutarmi nell’orfanotrofio. È un’esperienza molto forte e formativa per chi viene dall’Italia: si impara anche a ringraziare Dio quando si trova una fontana.

Gli ospiti delle strutture possono essere adottati?

Una volta le procedure di adozione era molto più snelle. Oggi il governo del Kenya ha messo leggi più severe, per cui le adozioni avvengono per lo più illegalmente corrompendo i funzionari amministrativi. Quelle legali sono molto lunghe e complicate. Bisogna anche ricordare che i bambini e ragazzi presi dalla strada e portati in strutture, spesso scappano perché non ce la fanno a stare nei luoghi chiusi, visto che sono ormai abituati a vivere in strada. Bisogna cominciare ad insegnar loro a stare seduti e dentro a una stanza. Tanti di loro sniffano la colla quando sono per strada. È la loro droga dei poveri. Per aiutarli, nella zona del nostro orfanotrofio, ci sono degli educatori e tre suore dell’ordine di san Giuseppe concesse dal vescovo per prendersi cura dei bambini.

Com’è la situazione sanitaria in Kenya?

La malattia principale è la malaria, ma, negli ultimi anni, il governo ha fatto campagne di disinfestazione più efficaci che negli anni precedenti, per cui l’indice di percentuale di contagio si è abbassato di molto. La profilassi, per chi viene in Kenya può avere controindicazioni sul fegato e dà disturbi di confusione mentale. Sulla costa le zanzare Anofele sono molto più rare e gli infettivologi spiegano che è più difficile prendere la malaria perché si deve essere punti da una zanzara Anofele, che è solo una delle 42 specie di zanzare che ci sono. In più, deve essere femmina e incinta, cioè in grado di depositare le uova nel sangue e far scoppiare la malaria.

Lei fa la profilassi?

No. L’ho avuta nel 2008 e sono stato molto male, ma ce l’ho fatta.

Ci sono altre malattie?

Non c’è molto altro: un po’ di Febbre gialla e la Dengue, ma nell’interno. Covid molto poco.

Quali sono gli sponsor che la supportano nel suo progetto di costruire una fattoria sostenibile?

Sono l’associazione Viterbo con amore e l’associazione Cuore di mamma. Le ho conosciute perché due anni fa, ho portato due bambini con problemi di cuore ad operarsi in Italia, a Roma, al Bambin Gesù. Queste sono associazioni benefiche legate all’ospedale romano e volte a dare assistenza e ospitalità gratuita ai genitori dei bambini operati, durante la degenza. Fra pochi giorni parto per andare a vedere se gli ultimi finanziamenti inviati sono stati usati per le finalità che ci eravamo prefissati.

Quanto tempo restano i bambini nel vostro orfanotrofio?

A volte finché sono grandi. Altre, vengono a prenderli dei parenti, a volte se ne vanno per conto loro, a volte le suore o io gli troviamo qualche lavoro, anche se c’è veramente poco. Qualcuno pensa alla possibilità di venire in Italia ma è troppo difficile ottenere il visto per il nostro paese. Purtroppo, è. Invece, facile averlo per andare a Doha e a Dubai. A Mombasa ci sono organizzazioni che invitano le ragazze ad andare in quei luoghi, promettendo loro lavori come baby-sitter o portiere d’albergo, ma poi le mettono sulla strada e infatti lì, c’è pieno di prostitute keniote.

La fame c’è?

Sì, specialmente nei villaggi ci sono persone molto malnutrite. A Mombasa, invece, ci sono zone in cui la gente sta anche molto bene. Un ristretto numero di privilegiati e una massa di poveri. Non esiste il ceto medio né la borghesia.

In un’epoca fortemente globalizzata come quella attuale sembra impossibile che non ci siano contatti con il mondo occidentale…

Il contatto c’è solo sulla costa. Nell’interno le persone vivono di economia rurale e nel nord fanno ancora lotte per avere zone in cui far pascolare le mucche. Paradossalmente, in Kenya c’era più fratellanza sotto il dominio degli inglesi, che se ne andarono nel 1963, che dopo. Con la loro partenza, scoppiarono le lotte tra le 42 tribù che vivono entro i confini dello stato. Questa cosa me la raccontò un vecchio medico con cui collaborai all’ospedale di Mombasa che aveva lavorato anche sotto gli inglesi.

Foto per gentile concessione di Stefano Guidaci.